Cocteau, le meraviglie della poetica multitasking
Non ha avuto torto la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, giusta l’immagine-civetta della mostra attuale su Jean Cocteau, il famoso ritratto, dedicatogli nel 1949 dal fotografo Philippe Halsman, e pubblicato su «Life», in cui il ‘poeta’ parigino appare, secondo le parole del curatore Kenneth E. Silver, «una sorta di Shiva, un giocoliere a sei braccia che si destreggia tra vari strumenti», penna, pennello, forbici, un libro aperto e una sigaretta.
L’assunto della mostra (fino al 16 settembre, catalogo Marsilio «Arte», pp. 173, e 40,00) è, come da sottotitolo, La rivincita del giocoliere, la riabilitazione integrale di una poetica multitasking, di un’espressione giocata, fungibile, mimetica, che patì la severità dei giudizi – da Gide a Breton, da Mauriac figlio (Claude) a Gracq – e che oggi, al contrario, trova la sua giustificazione in un’idea più inclusiva e partecipe dei linguaggi e degli stili.
Scrisse Cocteau nel 1919 in uno degli articoli per «Paris-Midi»: «Non facciamo mai quello che gli specialisti possono fare meglio. Cerchiamo la nostra specialità. Non disperiamoci se la nostra specialità si delinea più delicata, più piccola. Si ritrova in finezza ciò che si è perduto in forza». Sì, ma qual è la sua specialità? In realtà fece tutto ciò che gli specialisti potevano fare meglio, e lo riunì sotto il titolo di ‘poesia’. La poesia, per Cocteau, giustificava ogni sconfinamento, ogni divagazione, una specie di specchietto per le allodole, le varie specialità: teatro, poesia in senso proprio, romanzo, saggio critico, testo autobiografico, cinema, disegno, ceramica, affresco… Giustificava tanto più il mélange espressivo, la possibilità di coniugare il rappel à l’ordre, la politezza neoclassica, alle conquiste irrinunciabili dell’avanguardia, Erik Satie ai rumori. Lucidava le parole, cinguettava con Dada. Si capisce come quest’estetica sfuggente e disseminativa venga a interpretare le esigenze della scena contemporanea, votata alla fluidità e al miscuglio, singolarmente in linea con il brillante plurilinguismo degli anni venti, decennio – per eccellenza ‘di’ Cocteau – che infatti gode oggi di una rinnovata fortuna.
La mostra della Guggenheim si propone di rimettere in valore le diverse declinazioni visive, non di rado verbo-visive, del giocoliere di Maisons-Laffitte: una raccolta di pezzi eterocliti che sa di Wunderkammer. Cocteau era troppo bramoso di intercettare i movimenti della vita e dare lustro alla sua intelligenza per riuscire in opere ‘formate’: tutto scivola verso una fantasia generale, indeterminata. Non si può certo negare che esista uno stile Cocteau, ma è il risultato di una somma di iniziative incursorie e di operazioni mimetiche. «Je suis un mensonge qui dit toujours la verité»: questa «verità della menzogna», su cui Mauriac jr imperniò, nel 1945, un clamoroso atto di accusa, è oggi apprezzata, nella cultura critica, quale rivelatore della dissimulazione del potere e del denaro, ma non per questo si può dare per veritiera in termini di stile e di risultato poetico. Cocteau fu un sensibilissimo, estetistico indicatore di crisi, più che un artista nel pieno delle sue facoltà.
La mostra restituisce pulitamente, elegantemente, la frammentarietà meravigliosa, anche mirabolante, del suo dettato visivo. Dalle delizie tipografiche (la rivista «Le Mot», 1914-’15, insieme a Paul Iribe) ai disegni a linea continua, inchiostro o grafite, spesso raffiguranti i suoi amanti e l’eros più pungente, al vaneggiare delle pellicole e su tutte l’Orphée (1950) – mito ossessionante, che torna a più riprese –, dai manufatti per le sue messe in scena (maschere per la pièce Antigone, 1923) alle ceramiche frontali su cui insiste la figura del capro, al design per tessuti e gioielli (la spada di Accademico celebrante il Jean nazionale, realizzata da Cartier in oro, argento e pietre preziose!), si tratta di un’esplosione di frammenti edipici, di un pulsante campionario di figure-distrazione.
Nel celebre saggio lirico su Picasso, 1923, dedicato a Satie, aveva rivendicato quasi con rabbia la deviazione di quello, la sua adesione a Parade e ai Balletti Russi: «Ce l’ho trascinato. Chi gli stava intorno non voleva credere che mi avrebbe seguito. Su Montmartre e su Montparnasse pesava una dittatura. Era il periodo austero del cubismo. Gli unici piaceri permessi erano gli oggetti che possono stare su un tavolo da caffè e la chitarra spagnola. Era un delitto dipingere una scena…». Inaugurava così la strategia della menzogna: tutto il suo sforzo creativo per sfuggire a una dittatura, a un fantasma. E per sfuggire si dissociò, si moltiplicò, in diverse specialità, più «delicate», più «piccole».
Il colorato polimorfismo di Cocteau trova naturalmente sponda, oggi, nella cultura queer, e la mostra veneziana se ne fa interprete nel modo più dichiarato. Siamo così sicuri, nel caso in questione, che un investimento critico così pronunciato aggiunga conoscitivamente in modo determinante o, piuttosto, non sbilanci la valutazione? Restando alla Guggenheim, anche la recente mostra su Duchamp era innervata in questo senso, ma, sembra, con più profitto interpretativo. Così come per una delle preferite di Cocteau, Marie Laurencin, «BIBLIOTECA ROSA per adulti», a cui la Barnes Foundation di Filadelfia ha dedicato in autunno uno spaccato Sapphic Paris, compatta, direzionata restituzione d’epoca.
Cocteau è troppo queer per essere stretto in chiave queer. La scena madre della sua dissoluzione sessuale è Le Livre blanc. La prima edizione (Editions de Quatre Chemins, 1928 ) è aniconica; seguirà, nel 1930, la seconda (Editions du Signe), ornata con disegni soavi, morbidi, uomini «avviluppati e intrecciati», macchiati da pallidi aloni cromatici, nei quali Cocteau si confronta per la prima volta con il genere, «un’omosessualità visivamente astratta» cui seguiranno «decenni di disegni realistici» (Silver). In mostra, entrambe le edizioni, e uno studio, Éphèbe, per la seconda.
Confessione in anonimo, Le Livre blanc non era Les nourritures terrestres, 1897, «con il loro inno ai molteplici desideri, (…) la loro polemica intenzionalmente gioiosa contro tutti gli scrupoli», come ha scritto qualcuno. Dietro Gide c’è il rigorismo calvinista, dietro Cocteau un padre depresso e suicida, una petite maman adoré. All’appello sociale del primo, rispondeva l’atto privato, quasi masturbatorio, del secondo. Alla sincerità la fuga nello specchio.
Lo specchio è figura chiave nell’opera di Cocteau, estetizza «perché inquadra frammenti di realtà che restituisce su una superficie scintillante e unidimensionale» (Richard Dyer). Nell’«Untitled» (Orfeus, Twice), 1991, di Félix González-Torres, installazione «chimerica» che dà il la al percorso espositivo, due specchi gemelli riflettono le immagini dell’Orphée in cui Jean Marais attraversa la superficie liquida per accedere alla Zona, «un’ombrosa terra di nessuno disseminata di macerie» (Blake Oetting, nel saggio in catalogo). Gli specchi, soglie della morte. Il poeta paradigmatico, che nel racconto ovidiano rappresenta la diversione pederastica, cosa cerca nell’oltre? L’oltre e la colpa del guardare. «Due giovani zingari, (…) due corpi bronzei tre volte macchiati di nero»: voltarsi, guardare, come nella scena primaria all’inizio del Livre blanc, è pulsione di morte.
L’intera produzione omosessuale di Cocteau appare una fuga istrionica dalla prigione: alzare il tiro, scandalizzare, maxime nei fogli pornografici per Querelle de Brest (1947). Aveva voluto evadere dall’ortodossia cubista femminilizzando, attraverso Parade e il teatro, il suo idolo Picasso, fratello maggiore, ma padre, nella versione giansenista dell’anteguerra: trascinare sulla scena, mascherare il padre; fare di Picasso, per gli anni folli, una funzione mercenaria, di scambio.
Tra le varie sorprese in Palazzo Venier dei Leoni la più sorprendente è l’enorme disegno su lenzuola di lino La Peur donnant des ailes au courage, 1938, proveniente dal Phoenix Art Museum. Era di Peggy Guggenheim, che lo espose, proprio nel ’38, alla mostra inaugurale della sua galleria londinese in Cork Street, e poi lo acquistò per la dimora veneziana: dunque un ritorno. Soggetto criptico, la teoria di figure ruota intorno a quella, un po’ alla Beardsley, dell’amante Marais, capelli a fiamma, canottiera a rete, evidenza oscena (come in altri due casi) dei peli pubici. In un personaggio femminile la benda al braccio porta tracce di sangue, è il sangue di Cocteau. Volendo estrarre un’opera capitale da un corpus figurativo non capitale è questo disegno, che condensa, come testimoniò lo scrittore Roger Lannes, il dolore dell’atto creativo, «pietrificando» nella «paura» e nell’«angoscia» le sparse membra dell’artista incompiuto.
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