L’aula magna della sede romana del Cnr gremita di ricercatrici e ricercatori precari che si interrogano sul loro futuro è una scena già vista. Nel maggiore ente di ricerca italiano sono da poco finite le stabilizzazioni del personale a termine determinate dalla legge Madia, ma i numeri della precarietà sono di nuovo alti: attualmente sono 4.000, su circa 8.000 dipendenti, le precarie e i precari che garantiscono la competitività internazionale del Cnr senza alcuna certezza sul domani. Sanno che la ricerca pubblica italiana, in assenza di programmazione, è una macchina che accumula precari se non viene bloccata a colpi di proteste, manifestazioni, scioperi. Il governo di destra e il caldo di luglio rendono tutto più difficile. A maggior ragione, l’assemblea di ieri appare un successo.

La nuova impennata dei numeri si spiega (anche) con il Pnrr, che ha raddoppiato il bilancio del Cnr. Ai progetti finanziati dal recovery plan lavora un quarto dei precari. Finiti i fondi non resterà loro altra scelta che migrare. Chi da tutta Italia hanno risposto all’appello dei «Precari Uniti Cnr» appoggiato dai sindacati confederali intende scongiurare questo destino. «Non siamo fantasmi», «senza di noi i laboratori chiudono», «provateci voi a chiedere un mutuo» è il tenore di molti interventi. La richiesta è una nuova tornata di stabilizzazioni, non poi così tante alla luce dei pensionamenti. All’assemblea si affaccia l’opposizione con Verducci (Pd), Piccolotti (Avs) e Caso (M5S) uniti nel promettere battaglia in vista della prossima legge di bilancio. Spicca invece l’assenza della presidente del Cnr Maria Chiara Carrozza, invitata e più volte evocata. La conclusione dell’assemblea dà appuntamento a una nuova mobilitazione in settembre, quando si aprirà il cantiere dei conti pubblici.

Al contrario, non erano invitati ma si sono presentati lo stesso i 400 lavoratori che per conto dell’Istat intervistano gli italiani su occupazioni e consumi e che ieri hanno interrotto pacificamente a Roma la Conferenza nazionale di statistica. Da anni l’Istat subappalta all’esterno la raccolta dei dati in base al criterio del massimo ribasso. Quest’anno, ha denunciato l’intervento non programmato, il consorzio vincitore guidato dalla Csa impone riduzioni nelle retribuzioni che toccano il 30%. Se ne avvantaggia l’impresa, ma al costo di una «perdita della qualità nella fase della raccolta dei dati, fondamentali per il Paese e le politiche» e di «possibili inedite interruzioni di indagini continue storiche come quelle di forze lavoro e delle spese degli italiani già in forte ritardo».