Il giorno dopo il Nobel, Giorgio Parisi non ha ancora trovato il tempo e la tranquillità per leggere con attenzione il lungo documento che dettaglia le motivazioni scientifiche dell’assegnazione del premio. A differenza di altri premiati, il comitato di Stoccolma aveva l’imbarazzo della scelta: i campi della fisica in cui Parisi ha saputo dare contributi decisivi sono numerosi e diversi. È il vantaggio dei fisici teorici a cui spesso, per realizzare una scoperta o sviluppare una nuova teoria, bastano una penna e un foglio di carta. Al massimo un computer. Oltre, ovviamente, a un cervello fuori dal comune. Anche le ricerche di Giorgio Parisi sono rimaste a lungo pura teoria: idee e modelli matematici certamente riconosciuti a livello internazionale, ma almeno agli inizi, alla fine degli anni ‘70, splendide idee astratte. Ma il Nobel premia le scoperte, non le teorie. Sono serviti pochi anni per capire che quei modelli teorici sui “sistemi disordinati” erano in grado di interpretare moltissime situazioni reali. La crisi del clima, un sistema disordinato e complesso come pochi altri, ha dimostrato l’attualità di questi strumenti conoscitivi.

Nella sua carriera ha esplorato campi di ricerca molto diversi tra loro. All’inizio, nel gruppo di Nicola Cabibbo, ha compiuto ricerche importanti nel campo delle particelle elementari, che sono tuttora tra le sue ricerche più citate nella letteratura scientifica. Poi si è dedicato ai sistemi disordinati, un campo che va dalle termodinamica alle neuroscienze e all’economia. In tanta abbondanza di idee, cosa è stato più apprezzato dai giurati di Stoccolma?
A leggere le motivazioni, credo che abbiano contato molto le ricerche sui sistemi disordinati e sulle soluzioni matematiche innovative con cui si studiano questi argomenti. I giurati hanno citato anche le ricerche sulla propagazione della luce in sostanze disordinate, e gli studi sulla turbolenza nei sistemi caotici compiuti con Benzi, Paladin e Vulpiani. Credo che abbia giocato un ruolo il fatto che sono problemi molto generali, si ritrovano in diversi aspetti della natura: dagli atomi alla scala planetaria, come si legge nella motivazione ufficiale. Le ricerche sulle particelle elementari, invece, ormai fanno parte un capitolo precedente della mia carriera, rispetto agli studi premiati con il Nobel.

Rispetto alla fisica classica che si studia a scuola, i sistemi disordinati rappresentano un approccio completamente diverso.
Effettivamente, nella fisica che si studia a scuola si cerca di rimuovere le irregolarità e concentrarsi sull’equilibrio e sulla prevedibilità dei corpi. Nelle ricerche premiate, invece, ci si concentra più sul disordine e sull’irregolarità, e si trascura tutto il resto. È un cambio di approccio simile a quello che prospettava Marcello Cini, quando parlava di una transizione dallo studio delle leggi naturali a quello dei processi evolutivi.

Cini parlava anche di sistemi complessi, e anche i giurati del Nobel li hanno citati. Complessità è diventata una parola passe-partout, e molti pensano che di questo termine si sia abusato. Per lei cosa significa esattamente la parola complessità?
Negli ultimi trent’anni ho sempre sottolineato un aspetto che caratterizza i sistemi complessi in particolare. Ed è il fatto che questi sistemi possono avere molti stati di equilibrio completamente diversi tra loro. Un bicchiere d’acqua ha una pressione e una temperatura ben determinata, ma una proteina può ripiegarsi in milioni di modi diversi. Un animale può trovarsi in un numero di stati ancora più elevato. E questi sistemi che chiamiamo “complessi” possono passare da uno stato di equilibrio all’altro con una certa facilità: basti pensare a quanto rapidamente un animale riesce a passare dallo stato di sonno a quello di veglia. Noi fisici parliamo di “metastabilità”. È quello che permette anche al cervello di passare rapidamente da un pensiero all’altro, ma allo stesso tempo fissare i ricordi per molto tempo.

Si aspettava di condividere il premio con due climatologi, come Manabe e Hasselmann?
Ammetto che è stata una sorpresa. Ma nel mio caso, il premio Nobel condiviso con due climatologi fa di me una persona che ora può e deve parlare anche della crisi climatica, nel mio piccolo. Intendiamoci, i premi Nobel tendono a parlare un po’ di tutto, e per qualche motivo si ritiene che debbano essere ascoltati. Ma questo tema per me è davvero molto importante e prendo questa investitura come un impegno. Ad esempio, venerdì prossimo alla Camera ci sarà un incontro preparatorio alla Cop26 e mi è stato chiesto di fare un intervento di carattere scientifico e politico alla presenza delle massime autorità dello stato.

Sarà questo il leit motif dei suoi interventi pubblici, dopo un riconoscimento così importante?
Il clima, certo, sarà un tema. L’altro tema su cui cercherò di battere è quello dello scarso finanziamento alla ricerca pubblica in Italia. La legge finanziaria dovrà essere presentata a breve e mi batterò affinché alla ricerca pubblica venga dato il giusto peso. Mentre la crisi climatica è un’emergenza mondiale, il sottofinanziamento della ricerca è un’emergenza per l’Italia.

Quali applicazioni delle sue ricerche oggi la appassionano maggiormente?
A dire la verità, al momento attuale non sono tanto appassionato dalle applicazioni, ma dalla fisica di base dei problemi a cui mi sono dedicato in questi decenni. In particolare, ora mi interessa capire quale sia il ruolo delle dimensioni in questi problemi: quanto la fisica di questi sistemi dipenda dalle dimensioni dello spazio in cui sono collocati. Ma in realtà, negli ultimi due o tre anni sono riuscito a lavorare attivamente a queste ricerche solo in parte. La presidenza dell’Accademia dei Lincei (ora Parisi ne è vicepresidente, ndr) mi ha chiesto molto impegno. E poi c’è stato il Covid, che pure mi ha occupato molto.

Ha fatto una battaglia affinché i dati sanitari fossero condivisi liberamente con la comunità scientifica. Com’è andata a finire?
In realtà avere i dati completi, come siamo riusciti a ottenere dall’Istituto Superiore di Sanità, non si è rivelato poi così utile. In ogni caso, l’Istituto ha migliorato la condivisione dei dati e ora molti di essi sono liberamente scaricabili da Internet. Oggi, però, la cosa più interessante è incrociare i dati sulla pandemia con quelli relativi alle vaccinazioni, per capire in dettaglio come la copertura vaccinale stia influenzando l’andamento del contagio. In questo momento, bisogna capire se e come le scuole dell’infanzia, le scuole primarie e le prime medie sosterranno il virus. Per ora noto che c’è stato un rallentamento nella discesa del numero dei casi.

Nelle prime dichiarazioni ha descritto il dipartimento di fisica della Sapienza di Roma, dove ha studiato e trascorso gran parte della carriera, come di un posto straordinario, senza eguali al mondo. Cosa lo rende così speciale?
Un dipartimento universitario è fatto dalle persone che ci lavorano. Alla sua nascita, l’Istituto di Fisica fu fondato da Edoardo Amaldi con grande attenzione, facendo in modo di attirare a Roma non solo dei bravi scienziati, ma anche persone che si comportano in modo corretto con gli studenti e con i colleghi. Per Amaldi era importante che l’istituto di fisica fosse anche un ambiente piacevole. I suoi successori, come Giorgio Salvini e Giorgio Careri, sono stati bravi a mantenere questa impostazione, che oggi è nel Dna del dipartimento.

Dopo l’assegnazione del Nobel è stato accolto alla Sapienza da striscioni e cori degli studenti, che l’hanno portata in corteo nella città universitaria. Una scena commovente, non succede spesso per un premio Nobel. Come si spiega tanto affetto da parte dei colleghi e, soprattutto, degli studenti?
Mi aspettavo un’accoglienza molto più fredda, lo confesso. Per spiegarlo, ricorro a quello che mi raccontò una volta Luciano Maiani di Nicola Cabibbo. Nicola era considerato da tutti un vero e proprio eroe, perché era riuscito a ritagliare uno spazio internazionale per la fisica teorica italiana. Credo che i fisici siano legati da un comune senso di appartenenza alla stessa famiglia e forse nei miei confronti è scattato un sentimento simile.