ExtraTerrestre

Clima anno zero, la grande fuga dalle coste

Eventi estremi La chiamano «managed retreat» ed è la fuga dalle aree a rischio inondazione a causa dei cambiamenti climatici. Ecco quali sono

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 14 novembre 2019

Da Lagos ad Annapolis, da Venezia a New York l’abbandono di regioni ad alto rischio di inondazioni favorite dall’innalzamento del livello dei mari non è più solo trama di una distopia fantascientifica. Invece il managed retreat, la ritirata strategica dalle zone a rischio a causa del mutamento climatico, è ormai all’ordine del giorno di commissioni, enti preposti e governi locali.

LE ISOLE . I CASI PIÙ DRAMMATICI di questa «emergenza al rallentatore, come la definisce Rob Moore della National Resources Defense Council (Nrdc), riguardano isole-nazioni oceaniche, dalle Maldive alle Isole Marshall, che intravedono la sommersione integrale o come nel recente caso delle Bahamas, le Virgin Islands e Puerto Rico, la distruzione integrale da parte di uragani «maggiorati». La minuscola repubblica di Kiribati in Micronesia ad esempio sta già diventando inabitabile per l’innalzamento del mare e l’infiltramento di acque salmastre. Il governo ha acquisito venti chilometri quadrati di terreno a 2000 km di distanza, sull’isola di Vanua Leva, in previsione di una inevitabile «emigrazione dignitosa». Il fatto che Vanua Leva faccia parte dell’arcipelago di Fiji, esso stesso a rischio sommersione, rende ancor di più la dimensione disperata di popoli su cui incombe ormai l’abbandono di terre ancestrali senza prospettive di un reale salvataggio.

LOUISIANA – POSTUMI DI KATRINA. Indicative della ritirata già in atto sono le coste americane sul Golfo del Messico, nella diretta traiettoria degli uragani che colpiscono la regione fra giugno e novembre. In nessun luogo il potenziale distruttivo di queste tempeste tropicali su una grande città si è palesato come con Katrina. Gran parte della costa meridionale della Louisiana è caratterizzata da paludi e sistemi acquitrinosi salmastri che si stemperano nel Golfo, in particolare il grande delta del Mississippi, che dà vita ad un dedalo di passaggi e canali costellato di isolotti a fior d’acqua. Quando era ecologicamente integro, il territorio costituiva una barriera naturale alle intemperie provenienti dal mare, ma anni di erosione determinate da pressione antropica sfruttamento petrolchimico, oltre che dall’intensificarsi degli uragani, hanno decimato le difese. La costa della Louisiana perde ogni anno l’equivalente in terre emerse dell’area di Manhattan.

INIZIALMENTE, L’ENFASI È STATA su progetti di protezione e restauro degli ecosistemi, la mitigazione dell’erosione e fortificazione di vegetazione e barriere naturali, il ripristino della sabbia su spiagge erose. Molte di queste battaglie sono però perse in partenza dato l’intensificarsi dei fenomeni metereologici e, quindici anni dopo Katrina e la catastrofica inondazione di New Orleans, lo stato ora è pronto alla ritirata strategica. Primo esempio concreto: la piccola isola di Isle Jean Charles nel Bayou di Terrebonne, che nel 1955 misurava oltre 8000 ettari e oggi ha perso il 98% della massa terrestre, ricevendo il colpo di grazia con l’uragano Isaac nel 2012. L’isolotto è terra ancestrale delle locali tribù native Biloxi, Chitimacha e Choctaw, che vi si erano rifugiate per scampare alle campagne genocide del 1830. L’isola è stata prima attraversata da canali di navigazione scavati per le operazioni petrolifere e poi lasciata fuori da un progetto di dighe difensive del genio militare. Oggi è ridotta a un area di 3 km x 500 metri e in seguito ad una lotta di molti anni le tribù hanno ottenuto stanziamenti federali per 48 milioni di dollari al fine di reinsediare le 40 rimanenti famiglie in una località più sicura dell’entroterra: una ex piantagione di canna di 200 ettari entro il perimetro difensivo, su cui il governo edificherà abitazioni e infrastruttura, garantendo per quanto possibile la salvaguardia dell’identità tribale culturale della comunità. È un’operazione che le autorità tribali sperano possa servire da modello per le molte prossime operazioni analoghe destinate ad aver luogo in America e nel mondo.

FLORIDA. NEGLI STATI UNITI LO STATO statisticamente a maggior rischio è la Florida con 2170 km di litorale basso, il 40% delle coste americane considerate soggette a inondazione si trovano qui e uno studio eseguito nel 2016 stima che fino a sei milioni di abitanti dovranno cercare riparo verso l’entroterra entro la fine del secolo. Anche qui la ritirata è già iniziata: nelle Florida Keys, la catena di isole dell’estremo sud che si estende nel mare caraibico fino a 150 km da Cuba, la prospettiva di un esodo è fin troppo reale e sono già cominciate demolizioni di abitazioni colpite sempre più frequentemente da inondazioni. Anche qui gli eventi sono segnati dagli uragani. Dopo ogni catastrofica tempesta si impone la domanda se valga la pena ricostruire in una zona a rischio sempre maggiore di tempeste carburate dal mutamento climatico. È una domanda concreta per molte vittime dell’uragano Irma, che ha colpito la Florida due anni fa. Molti proprietari di case hanno deciso di abbandonare definitivamente la regione, trovandosi però al contempo nell’impossibilità di vendere le proprietà a causa del prevedibile collasso dei valori immobiliari. Il fatto che gli assicuratori abbiano smesso di vendere polizze nelle zone a rischio ha inoltre reso le case di fatto invendibili.

L’ALTERNATIVA È L’ACQUISTO DEMANIALE e gli stati dovranno prevedibilmente subentrare sempre di più a questo riguardo per evacuare le coste. Il New Jersey ad esempio, dopo il superstorm Sandy, ha istituito un fondo speciale di 300 milioni di dollari per l’acquisto di abitazioni a rischio. A Houston, dopo le inondazioni provocate nel 2017 dall’uragano Harvey, lo stato ha comprato tremila edifici. Le strutture sono destinate alla demolizione e i terreni, restituiti al demanio, rimarranno inabitati. È la politica perseguita da un numero sempre maggiore di amministrazioni e dall’agenzia federale per le emergenze (Fema), che tentano di supplire con incentivi alla vendita. Quest’anno il governo americano ha già stanziato sedici miliardi di dollari per la protezione climatica, destinati a nove stati a rischio più Puerto Rico e le Isole Vergini. Si tratta pur sempre di una frazione dei finanziamenti che saranno necessari e il passo lento della burocrazia non riesce a tenere il passo con l’urgenza delle emergenze.

ENTRO LA FINE DEL SECOLO, SECONDO una stima fatta dal demografo Matthew Hauer, che studia il fenomeno presso la Florida State University, rischia di venire inondato l’80% dell’arcipelago delle Keys – compresa la mecca turistica di Key West – isola di Hemingway. Tre milioni e mezzo di persone potrebbero diventare vittime di inondazioni in Dade county, la provincia densamente popolata di Miami e la vicina Broward county. Previsioni che non sembrano però aver rallentato il ritmo delle nuove costruzioni: nella città americana a maggior rischio sono in bella vista ovunque cantieri di nuovi grattacieli e condomini. La speculazione edilizia e gli investimenti immobiliari in mercati desiderabili, spesso con vista mare, è uno degli ambiti in cui l’economia del capitale e della speculazione economica è più smaccatamente antitetica all’avveduta politica ambientale. Da un lato manca la volontà politica per imporre la decrescita, dall’altra i valori immobiliari in molte zone a rischio rendono proibitivo l’intervento pubblico per l’acquisto di immobili. Il ciclo di investimento-distruzione-ricostruzione è un circolo vizioso che è difficile spezzare proprio nelle comunità più abbienti. Presto però, a causa del mutamento climatico, le economie, come quelle della Florida o California, fondate su beni immobili e turismo, potrebbero vivere un crack peggiore di quello che nel 2008 innescò la recessione globale che ancora attanaglia gran parte del pianeta.

NEGAZIONISMO IMMOBILIARE. In California l’ente statale preposto alla regolamentazione del litorale – dai permessi per l’edificazione alle normative sull’inquinamento e la bonifica delle acque – è la Coastal Commission. Ma da qualche tempo l’argomento che occupa i commissari californiani è l’erosione dovuta all’aumento del livello del mare e le sue conseguenze su una delle coste più variegate e pregiate del paese. Oltre a località celebri per bellezza naturale come la baia di Monterey e Big Sur, sui 1350 km di costa dello stato si affacciano metropoli come San Francisco, San Diego e Los Angeles. Numerose inoltre le località residenziali di lusso come Malibu e La Jolla, dove sontuose ville si affacciano alle viste sul Pacifico spesso sul bordo di rupi e scogliere sempre meno stabili. Molte, in località come il Pacific district di San Francisco, sono già state dichiarate inagibili e abbandonate o demolite. Due anni fa la commissione costiera ha chiesto che ogni municipalità affacciata sull’Oceano stilasse un progetto per far fronte al previsto innalzamento del livello del mare e che i piani di emergenza includano l’opzione per una ritirata a lungo termine. Ma la richiesta si è scontrata con l’opposizione di molti residenti he si rifiutano di contemplare questa eventualità.

La questione è giunta al pettine il mese scorso a Del Mar, enclave costiera nella contea di San Diego con 4500 abitanti per 5 km2 di area comunale, dove il livello del mare minaccia beni immobili per un valore complessivo di un miliardo di dollari. Qui molte ville sono edificate non più di uno o due metri sopra il livello del mare. Quando lo stato ha chiesto al comune di presentare un progetto di ritirata, le associazioni di proprietari sono insorte, rifiutando di contemplare l’eventualità e proponendo in alternativa la fortificazione del litorale, destinata comunque a diventare insufficiente nel giro di pochi decenni. È la manifestazione di un negazionismo immobiliare che ha tra l’altro l’effetto di far gravare il risarcimento delle perdite dei più ricchi sulle casse pubbliche.

BLINDARE IL MARE. LA RITIRATA CLIMATICA promette di essere un problema di scala colossale e globale. Anche nel caso di evacuazioni programmate e strategiche, le dimensioni economiche sono destinate a essere mastodontiche. In occidente sono già all’esame, e in alcuni casi operative, monumentali operazioni di ingegneria civile che pongono enormi sfide tecnologiche. Tutto comunque da progettare e mettere in atto entro 10-12 anni al massimo, stando allo stragrande consenso scientifico. Di solito consistono di muraglie e dighe foranee per contenere le acque, ma la grande incognita rimane la loro efficacia. New Orleans ha appena completato migliorie ai propri argini marini, costati 14 miliardi di dollari – ma la stima è che fra 4 anni potrebbero essere nuovamente insufficienti.

SI TRATTERÀ DUNQUE DI PRENDERE decisioni che inevitabilmente finiranno a volte per privilegiare interessi economici e politici su quelli umanitari. Alcuni territori dovranno necessariamente essere sacrificati all’avanzata delle acque ingrossate dallo scioglimenti de ghiacci artici, per stabilire linee di ultima difesa su cui concentrare e spese. Una di questa sarà presumibilmente New York, cuore pulsante dell’economia americana e fra le città più esposte alle acque. Nella Big Apple, l’uragano Sandy ha provocato nel 2012 una dozzina di morti e 65 miliardi dollari di danni. Fra le zone più immediatamente minacciate è Staten Island e per proteggere il borough merdionale, il genio militare ha progettato una muraglia alta tre metri che percorrerà il litorale sudorientale per 10 km. Intanto molti dei quartieri più esposti sono già stati abbandonati, le case allagate demolite e i terreni destinati a demanio.

«CLIMATE FASCISM». LA REALTÀ CHE EMERGE sempre più chiaramente da studi e previsioni – e sempre più dalla cronaca – è che entro la fine del secolo potrebbero dover abbandonare le coste fino a 13 milioni di americani. In tutto il mondo, stando a un rapporto della ong britannica Christian Aid, potrebbero essere esposte a inondazioni costiere oltre un miliardo di persone. Ironicamente le città più a rischio di inondazioni sono in maggioranza quelle dei paesi più inquinanti: da Miami a Kolkata a Guangzhou. Se faticano a far fronte alla crisi città come New York e New Orleans, è facile prevedere un più drammatico scenario a Dakha o Ho Chi Min City. Nello scenario venturo più plausibile si prospetta la massiccia creazione di profughi in regioni in via di sviluppo. La prospettiva è quella di masse di rifugiati che farebbero impallidire le attuali migrazioni ,che già hanno avuto la forza di destabilizzare l’ordine mondiale e democratico. È prevedibile quindi, di pari passo, una recrudescenza xenofoba che potrebbe radicalizzarsi ulteriormente in un contesto di immigrazione accentuata ed esacerbare la mentalità di assedio su cui gettano benzina sovranismi e nazional-populismi, un circolo vizioso che è urgente spezzare se vorremmo avere una minima possibilità di essere all’altezza di una sfida senza precedenti.

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