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Clima all’Onu: il più ambizioso è il colombiano Petro, piccoli passi per il Brasile

Clima all’Onu: il più ambizioso è il colombiano Petro, piccoli passi per il BrasileAntonio Guterres – Ap

Assemblea generale delle Nazioni unite Guterres: «L’umanità ha spalancato le porte dell’inferno». Bisogna spegnere le «ciminiere del mondo»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 22 settembre 2023

Se «l’umanità ha spalancato le porte dell’inferno», secondo la potente espressione di Antonio Guterres, è davvero troppo poco quello che si sta facendo per tentare di richiuderle.

È questa la denuncia emersa dal Climate Ambition Summit svoltosi mercoledì a New York nel quadro della 78esima Assemblea generale delle Nazioni unite, a cui hanno preso parte i rappresentanti di una trentina di paesi (ma anche di imprese, istituzioni finanziarie, enti locali e società civile) concretamente impegnati – non solo a parole – sul fronte dell’emergenza climatica e della transizione verso un’economia basata sulle energie rinnovabili. E, tra questi, solo tre dei dieci maggiori contaminatori del pianeta: Brasile, Canada e Unione europea.

Ed è proprio per il «ritardo di decenni» rispetto alla transizione energetica, per le «esitazioni», per l’«avidità» di chi «guadagna miliardi dai combustibili fossili», che i paesi poveri, ha detto il segretario generale dell’Onu, hanno ragione ad essere «arrabbiati»: lo sono perché appaiono «i più colpiti da una crisi climatica che non hanno contribuito a creare», perché «i finanziamenti promessi non si sono concretizzati» e perché le loro spese per far fronte all’emergenza «sono astronomiche».

Ma se l’umanità sta procedendo verso «un aumento della temperatura di 2,8 gradi», e cioè «verso un mondo pericoloso e instabile», è ancora possibile voltare pagina: basterebbe che si raggiungesse l’obiettivo delle emissioni nette zero «quanto più possibile a ridosso del 2040» per i paesi sviluppati e «del 2050» per le economie emergenti; che si mettessero in atto «piani di uscita dal carbone entro il 2030 per i Paesi Ocse ed entro il 2040 per il resto del mondo», ponendo fine ai sussidi – in continuo e vertiginoso aumento – ai combustibili fossili; che venissero fissati «obiettivi ambiziosi in materia di energia rinnovabile». E che i paesi sviluppati mantenessero la promessa di destinare 100 miliardi di dollari ogni anno ai paesi poveri.

Ma, secondo la coordinatrice del Asian People’s Movement on Debt and Development Lidy Nacpil, ci vorrebbe di più: «Un trattato internazionale sulla non proliferazione dei combustibili fossili» e una «finanza climatica» intesa come «obbligo e riparazione almeno parziale per i danni storicamente prodotti». O, secondo l’espressione del presidente colombiano Gustavo Petro, un «Piano Marshall per la vita» destinato alla mitigazione e all’adattamento al riscaldamento globale attraverso la ristrutturazione del sistema finanziario mondiale.

Ed è stato proprio Petro, tra tutti i capi di stato, a spingersi più lontano, indicando come «obiettivo reale» per ogni paese quello di tendere all’«azzeramento della produzione e della domanda di petrolio, carbone e gas», diminuendo ogni anno il loro consumo – e la loro estrazione – ed eliminando completamente i sussidi ai combustibili fossili, come ha già iniziato a fare la Colombia. Per il suo paese, ha continuato Petro, sembrerebbe un suicidio, essendo il quinto maggiore esportatore di carbone e un grande esportatore di petrolio, ma neppure la Colombia può più «vivere di questo»: «Nulla giustifica l’insistenza su tale modello economico».

Da qui l’invito a «spegnere le grandi ciminiere del mondo», e cioè Stati uniti, Cina, India ed Europa, e «rivitalizzare» le due «regioni spugna dei gas serra»: l’America latina e l’Africa, con le loro «grandi potenzialità di generazione di energia pulita», come ha ugualmente evidenziato il presidente del Kenya William Ruto.

Assai più sfumata la posizione del Brasile, rappresentato non da Lula ma dalla ministra dell’Ambiente Marina Silva, la quale ha annunciato il ripristino dei tagli alle emissioni che il paese si era impegnato a realizzare a Parigi nel 2015 – prima che Bolsonaro ne ridimensionasse gli obiettivi -, ma lasciando cadere il riferimento al tetto assoluto di emissioni per il 2030 (pari a 1,2 miliardi di tonnellate di Co2) proposto dal Comitê Interministerial para Mudança do Clima.

«È molto al di sotto di ciò che il Brasile potrebbe fare», ha commentato Stela Herschmann dell’Observatório do Clima, ma «è un passo avanti», soprattutto a fronte della «mancanza di ambizione di altri grandi contaminatori».

 

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