Fabrizio Clerici ritratto da Leonor Fini nel 1952

«Dieci giugno: acquisto Fetal. Verso Thos, in località Zeyve, dopo Kemer a destra e poi a sinistra. Le due case del guardiano si chiamano Castello. Tombe rupestri, tombe licie, acquedotto, terme (rinfrescata nel corso d’acqua), teatro sepolto nella foresta. Non hai fotografato due serpenti che bevono in un bicchiere. Colazione con pane iufkà (…). Siesta dal sultano sul terrazzo sospeso all’albero, su materassini modelli Alì Babà. (…) Tu a pezzi, io al cinema (un Robin Hood dell’Anatolia). Atatürk al neon!».
No, non si è deciso di confrontare il lettore col testo inedito di una canzone di Battiato, da collocare magari nella fase pop dello sperimentalismo new wave, fra mercanti indiani, walzer viennesi e governatori della Libia, quello insomma dell’Era del cinghiale bianco o di Patriots (usciti rispettivamente nel 1978 e nell’ ’80). Il brano con cui si è scelto di aprire il pezzo va piuttosto riconosciuto nella pagina di un diario, fin qui mai dato alle stampe, composto dal pittore e scenografo Fabrizio Clerici durante un viaggio in Turchia nel 1973: un patchwork di nomi, luoghi e influenze che, giudicato sul metro del tempo, sembra confermare la fama di ‘veggente’ conquistata in vita e nutrita lungo un’esistenza di raffinato isolamento, trascorsa sotto all’etichetta snobistica (e contraddittoria) di Grande Mondano e Perfetto Eremita.
Proprio i dilemmi di datazione – rifratti negli spettacoli luminosi delle sue opere tanto quanto nelle colte analisi della sua bibliografia, annunci spesso profetici di vague a venire – sono del resto al centro dell’ ‘enigma Clerici’, di un personaggio che grazie al marchio medianico (e tuttavia sempre conteso) di «surrealista», ha giocato a rimpiattino con le epoche e gli incasellamenti, dribblando stagioni e cronologie a suon di preveggenze, di ritorni e di una idea granitica della tradizione.
Più che Freud colle regole dell’inconscio, è stato soprattutto l’enciclopedico aggiornamento dell’artista ad alimentare una confusione siffatta: se, dunque, per Breton e seguaci le durevoli persistenze delle figure, degli stili andavano sondate innanzitutto con lo scandaglio della psicoanalisi, per l’italiano – milanese di nascita, anno 1913, fattosi romano già da ragazzo – il transeunte si supera per via d’erudizione, campo in cui, inevitabilmente, l’intelligenza si declina di pari passo con la fantasia.
È allora una bella trovata quella di aprire la mostra sull’artista – in cartellone a Roma, GNAM fino al 2 ottobre – con la strabiliante, sintetica mappa ottocentesca tracciata dal geografo francese Aristide Michel Perrot, il Tableau pittoresque des Merveilles de la Nature, che sin dall’adolescenza l’ha accompagnato di casa in casa, consigliando un matrimonio curioso (e tuttavia possibile) fra bizzarria e conoscenza. Questo talismano suggerisce infatti la continuità d’ispirazione che, in una certa misura, ne segnala il linguaggio, assieme invitando a un giusto inquadramento dei suoi dipinti e dei suoi disegni, rebus figurati in dialogo con la mitologia e l’archeologia, con le Wunderkammern e le tavole tipologiche.
Lo stesso materiale di cui si costituisce la rassegna concorre, d’altronde, a una simile prospettiva. Il percorso infatti si sostanzia delle filze pervenute in galleria per la fortunata acquisizione di una parte consistente dei fondi documentari del pittore, complice la disponibilità di Eros Renzetti, ultimo allievo e fedele custode della sua memoria attraverso le iniziative dell’archivio operante in Palazzo Brancaccio.
Si tratta di un episodio che ben s’inserisce nella politica perseguita di recente dalla GNAM, rivolta alla valorizzazione e all’arricchimento del proprio patrimonio di carte: come successo con i materiali di Anton Giulio Bragaglia (e con la successiva mostra, recensita anche su «Alias-D»), pure nel caso di Clerici la raccolta giunta in museo aiuta a delineare con più esattezza una rete di rapporti e relazioni, puntualizzando nessi e legami, incontri ed esiti creativi. In tal senso, ad esempio, sono preziosi gli scambi epistolari e le testimonianze grafiche che tratteggiano l’amicizia stretta dal pittore con Jean Cocteau, foriera dei comuni pensieri per un allestimento ‘ideale’ de Les Chevaliers de la Table ronde (integrazione perfetta all’appassionante racconto di quelle circostanze fornito dall’artista nel lontano 1979); ma anche la corrispondenza con Leonor Fini, amica intima e confidente, promette di rivelarsi una miniera d’informazioni, di pettegolezzi, all’altezza della nomea di conversatori ammalianti riconosciuta ai protagonisti dello scambio.
Certo, nel valorare la riuscita del percorso va evidenziato il lavoro condotto sui documenti dalla curatrice Giulia Tulino: una prima sistemazione, s’immagina, che pure ha il pregio lampante di organizzare nuclei biografici e formali, ora disponibili per ulteriori approfondimenti. La Tulino del resto non è nuova al tema: il censimento di protagonisti e opere condotto di recente sula declinazione italiana del fenomeno surrealista sta a testimoniare la sua familiarità con l’argomento, assieme all’acume dell’analisi sin qui condotta su un network tanto complesso di relazioni e apparentamenti.
Fa da specchio a queste specifiche ricerche la seconda sala dell’esposizione, intesa per raccogliere attorno a Clerici nomi fra cui Eugène Berman, Pavel Tchelitchev, Christian Bérard e Stanislao Lepri. Col metro infatti di alcune prove della Fini, che di un simile capannello informale e per nulla coeso fu animatrice corteggiata oltre che modello indiscusso (e la cui opera è oggi celebrata a Venezia, dalla Biennale al Guggenheim), vi si fanno bene apprezzare se non l’unità di stile delle diverse mani almeno le analogie fra gli orientamenti individuali. Meglio così si interpretano i marchi critici differenti con i quali sin dal secondo dopoguerra si scelse di circoscriverne l’operato, con l’intento inequivoco di distinguere i risultati del Surrealismo d’ortodossia transalpina: neoromantici, fantastici, visionari, metafisici.
Quella che, almeno in parte, si presentava come una faccenda di Kunstwollen, venne declinata negli anni quaranta-cinquanta in una messa a fuoco delle fonti specifiche coltivate da questi artisti accanto allo studio del «museo», e cioè la ditta De Chirico-Savinio, assieme ai grandi isolati Cocteau e Dalí (reduci ormai dalla svolta di personali, peculiarissimi ritorni all’ordine).
Non a caso, entrambe le coppie ebbero un peso determinante per la giovinezza e la prima maturità di Clerici, quando – dopo un lancio a fianco di Gio Ponti dalle pagine di «Stile» – andava affermandosi sulla scena internazionale come abile decoratore di palchi di teatro (la Fenice, il Maggio, Strasburgo) e creatore di stages mondani di squisitezza esclusiva (il palazzo della contessa Cicogna, il ballo Beistegui).
Si capisce allora meglio perché, nel definire il proprio lavoro, il pittore avrebbe sempre preferito all’etichetta coniata nel ’24 da Breton una formula prossima alle elucubrazioni del catalano e del librettista di Parade, quella cioè di «realismo irreale».
Nel dramma cupo e tribunalizio del Minotauro, nel sonno delle sculture della Roma di scavo o delle chiese barocche – soggetti di due grandi tele presentate ad apertura di mostra – si comprende bene la giustezza di una simile formula, partigiana ed evocativa a un tempo.