Cultura

Clémentine Haenel, diario in frammenti di un’osservatrice

Clémentine Haenel, diario in frammenti di un’osservatriceLeonora Carrington

TEMPI PRESENTI «Scrivo dell’essere una donna con un corpo desiderante, del piacere e dei suoi rischi. La protagonista cerca e si dibatte per trovare uno slancio vitale; vuole riprendere il respiro, vuole la dolcezza, vuole sfuggire alla violenza e conoscere la gioia della tranquillità. La mia scrittura è molto orale. La narratrice si racconta, con i suoi capricci, le sue ossessioni. Offre un flusso di coscienza, da leggere e da ascoltare. Espone un’intimità»

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 2 dicembre 2022

Il libro d’esordio di Clémentine Haenel racconta di quei momenti d’apnea in cui l’angoscia del respiro che manca si affianca al ricordo, prodigioso, di esperienze vissute. Vuoto d’aria (pp. 104, euro 15), edito da Alter Ego nella bella traduzione di Valentina Maini, è la storia di quello che definiremmo semplicemente un «brutto periodo», la mauvaise passe del titolo originale, con tutto quel sovrappiù temporale che un esso comporta – cioè quando il tempo ipnotico della quotidianità si dilata in tanti piccoli brutti momenti che si ripetono seguendo le variazioni del dolore.
Vuoto d’aria è un diario in cui la voce narrante di una giovane protagonista, un’eroina senza nome, sceglie di raccontarsi e raccontarci come il verbo «desiderare» possa declinarsi e assumere mutevoli facce e come l’esplorazione indiscriminata del desiderio lo riveli in tutta la sua ambivalenza.

Nella scrittura sperimentale di Clémentine Haenel quelle istanze narrative che descrivono la fuga e la ricerca di se stessi, pur diverse, volano sul filo di una tensione perpetua all’equilibrio, che gioca come antidoto all’angoscia, e generano entrambe un tipo di movimento – che è quello della vita nel suo slancio.

Le prime pagine del suo libro, con la descrizione degli abiti abbandonati per terra dopo una notte d’amore, ricordano gli abiti di «L’usage de la photo» (2005) di Annie Ernaux e Marc Marie. Il suo romanzo parla di desiderio, del desiderare – dal desiderare come donna, al desiderio dei corpi desideranti. In che modo la sua scrittura ne parla?
Quando ho scritto questo libro, non conoscevo questo testo di Annie Ernaux. Sono lusingata di questo riferimento perché è un’autrice che adoro, una donna che ha scritto testi forti, magnifici e necessari. È vero, si può vedere un’eco tra l’incipit del mio libro e l’approccio di Ernaux nel suo L’usage de la photo, poiché il mio obiettivo è stato quello di rendere visibile ciò che potrebbe essere definito osceno, ciò che di solito preferiamo lasciare nascosto. L’incipit ci porta nel crudo, nel brutale ma lo fa per vie traverse, evocando l’indomani, quello dei ricordi vaghi di una notte di orrore. Ci sono particolari su cui la narratrice si concentra per raccontarli, come se li stesse mettendo a fuoco, e segnatamente questi pantaloni che «si muovono senza di lei», questi pantaloni testimoni di un’erranza notturna, questi pantaloni come uno scampolo della notte passata che parlano di sconfitta e paura, perché la protagonista non ricorda concretamente quello che ha fatto.
L’argomento principale del mio libro è l’esplorazione del desiderio in tutta la sua ambivalenza. È fondamentalmente un libro sul corpo, sull’essere una donna con un corpo desiderante – sul piacere che può dare ma anche sui rischi insiti nell’essere donna nella nostra società.
Così, il corpo della protagonista è spesso espropriato dei suoi desideri. Ci sono scene che evocano la famosa zona grigia, scene in cui la narratrice non era consenziente e sono tratteggiate scene di violenza sessuale. Ma c’è anche il ritratto di una donna molto attenta al proprio corpo e ai propri desideri, che cerca il piacere e sa come trovarlo.
La scrittura oscilla tra queste due realtà che non si escludono a vicenda, che possono coesistere. Ancor più che un libro sul desiderio sessuale, carnale, è un libro sul desiderio di vita. La protagonista cerca e si dibatte lungo tutto il romanzo, cerca di trovare uno slancio vitale; vuole riprendere il respiro, vuole la dolcezza, vuole sfuggire alla violenza e conoscere la gioia della tranquillità.

Nelle sue pagine la violenza e l’ironia, o piuttosto il sarcasmo, spesso si trovano accompagnati. Si tratta di un modo per depotenziare il terrore che la violenza genera oppure di un dispositivo per normalizzarla?
Il sarcasmo accompagna quasi sistematicamente la violenza e permette di offrirle un contrappunto, apportando alla lettrice e al lettore – mi sembra – del contrasto ma anche una boccata d’aria fresca. L’umorismo è estremamente importante per me, aggiungere umorismo, più specificamente ironia, è un gesto di scrittura spontaneo e penso sia essenziale per le storie che racconto.
Mi piace parlare di argomenti inquietanti, duri, di ciò che ti mette a disagio e trovo che l’umorismo ti permetta di creare uno spostamento, di vedere le cose da un’altra angolazione e di non lasciarti coinvolgere completamente dall’asprezza, dalla violenza. Inoltre, mi sembra che la violenza in sé possa racchiudere un forte potenziale comico: ci sono molti dettagli che ne rivelano l’assurdità, ed è questo che sottolineo nel libro.
Non voglio normalizzare la violenza, ma sono cresciuta a Parigi in un quartiere, Pigalle, che è allo stesso tempo molto turistico e molto cupo, un quartiere che amo con tutto il cuore ma dove spesso accadono un bel po’ di cose disgustose. Ci sono nata e fin da bambina ho assistito spesso a scene violente. Non c’è niente di normale, ma crescendo in mezzo a tutto questo, a volte devi riderci sopra, devi vederci del grottesco, afferrare queste storie per raccontarle con ironia per attenuare il terrore – altrimenti è impossibile uscirne, altrimenti non si riesce a respirare.

I personaggi maschili del suo libro non hanno nome; neppure la protagonista e voce narrante ha nome. Tuttavia, se da una parte c’è una dichiarazione esplicita, che la voce narrante chiama «la mia voglia di dissipazione», dall’altra c’è l’autofiction, che afferma la presa di parola dell’io. Può spiegarci come è riuscita a parlare dell’io e allo stesso a dissiparlo?
Era importante per me creare una sfocatura attorno all’identità dei personaggi. L’eroina non ha nome né età, non sappiamo di preciso cosa stia studiando, quando lavora non sappiamo chiaramente quale sia la sua attività. Il libro è stato volutamente costruito come una raccolta di frammenti e flash. Questo non è un romanzo classico. Ci sono ellissi. Ci sono buchi. Ci sono zone grigie. Trovo che lasci spazio a chi legge di prendere in mano il testo, per riversarvi la propria immaginazione e, chissà, anche perché avvenga il processo di identificazione. Attraverso questo ritratto frammentato, ciò che mi interessava profondamente era far sentire la voce dell’eroina.
La mia scrittura è molto orale. La narratrice si racconta, e si racconta nei suoi stessi termini, con le sue stesse parole, i suoi capricci, le sue ossessioni. Offre un flusso di coscienza, da leggere e da ascoltare. Espone un’intimità. Ha un modo particolare di vedere e descrivere il mondo. È un’osservatrice: dei suoi pensieri, delle sue sensazioni, del suo corpo, del suo disagio ma anche di quello degli altri (di quello che dicono, di come si mettono in scena, di che aspetto hanno) e dei luoghi, per i quali prova un attaccamento eccessivo e fisico. Penso che il «sé» sia pervasivo ma anche sfuocato. Volevo far sentire una voce di donna diversa e allo stesso tempo in cui potessimo ritrovarci, volevo che questa voce di donna dicesse l’osceno, dicesse quello che in quanto donne ci viene insegnato – culturalmente, socialmente, in maniera sistemica – a nascondere. Il libro espone realtà che preferiamo tacere e questo è stato per me il punto di partenza del libro: scrivere la vergogna. Ridare voce a una donna che normalmente non ascolteremmo.

Nel suo libro si leggono almeno due istanze narrative, molto nette: una che spinge e l’altra che controlla.
Assolutamente. L’eroina è sempre tirata tra due poli: l’ipercontrollo e l’oblio di sé. Ci sono queste due forze all’opera in tutta la sua storia e c’è anche il desiderio dell’eroina di trovare un equilibrio, di smettere di cadere, di deragliare. È un libro che si nutre di questa tensione, di questa ricerca (trovare il giusto equilibrio, trovare il proprio posto) che ci nutre tutte e tutti.
È solo che l’eroina sente le cose (la gioia, il desiderio, la depressione) con una forza sorprendente. La narratrice è sempre presa tra due istanze, sempre combattuta: controllo/trabocco, desiderio/disgusto, fatti/fantasia, essere assente a se stessa/essere troppo presente a se stessa.

I luoghi della narrazione cambiano continuamente: gli interni della casa della protagonista, la Francia, con Parigi ma anche la provincia, l’Inghilterra, gli States e la Scandinavia. Cosa fugge la protagonista nello spostamento, o meglio, cosa cerca?
Ho voluto scrivere l’itinerario mentale e geografico della protagonista. Quando scrivo, evocare i luoghi è estremamente importante per me, i luoghi diventano personaggi a sé stanti, aiutano a plasmare l’immaginazione e la realtà dell’eroina. Lei sente un attaccamento fortissimo a certi luoghi e allo stesso tempo non ne è soddisfatta poiché è sempre in movimento, alla ricerca di un altro posto.
Ha un rapporto di amore-odio con Parigi, la sua violenza e tutti i ricordi che sono incisi nei ciottoli, nei pali, nei marciapiedi. Penso che sia un’insoddisfazione che la fa muovere, e anche il desiderio di fuggire da certi ricordi che lega direttamente a certi luoghi – i luoghi raccontano i ricordi – e di fuggire da se stessa mettendosi in movimento. Quindi vuole vedere le cose, lasciare l’ostilità della sua quotidianità e immergersi in questa ricerca di un altrove dove possa finalmente stare bene.

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