La letteratura nordeuropea ha mille volte sfiorato il surrealismo lasciando poi alla Francia l’onore di dargli i Natali. Erano surrealiste già le invenzioni oniriche di Strindberg, quelle di Kafka o anche La montagna magica di Thomas Mann che, pubblicata nel 1924, anno del Primo manifesto surrealista, con il suo monumentale stravolgimento dell’ordine della realtà in un solo, lunghissimo sogno si può ritenere a buon diritto un’antesignana dell’ultimo minuto di quanto l’immaginario surrealista avrebbe prodotto all’indomani della sua nascita. In seguito e per molto tempo, il surrealismo rimase l’unica espressione produttiva dell’ormai trascorsa stagione delle avanguardie, senza mai svanire del tutto, al punto da riproporsi in forme diverse e talvolta eccentriche a latitudini impensabili, grazie alla sua storica capacità di contaminarsi praticamente con tutto: con il realismo magico della stagione aurea sudamericana, magari, o con le molteplici espressioni della cultura giapponese che, per citare un esempio famoso, alimentano la narrativa di Murakami Haruki.

La via del ritorno in Europa fu però, quasi sempre, preclusa al surrealismo; e in Germania, dove la letteratura, in cerca di una propria espressione identitaria, ha seguito negli ultimi decenni strade autonome, tortuose e talvolta anche poco comprensibili nei loro esiti, il surrealismo si è finalmente aperto una breccia soltanto molto tardi. Ciò che ne aveva resa possibile l’anticipazione, vale a dire l’affinità elettiva con molte espressioni del primo romanticismo, della letteratura notturna e onirica, gli ha permesso poi di reincarnarsi nelle narrazioni di alcuni autori che romantici, in senso lato, ancora si sentono: Daniel Kehlmann, ad esempio o, più di tutti, Clemens Meyer. Di quest’ultimo appare adesso da Keller il secondo romanzo, Caverne (traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero, pp. 678, euro 20,00) che risale al 2013 e da allora è stato celebrato come uno dei migliori libri tedeschi degli ultimi anni, all’apparire di ogni nuova traduzione. Meyer, che dopo il primo romanzo, Eravamo dei grandissimi, era stato spesso associato a Irvine Welsh per la crudezza delle storie e del linguaggio, sembra ricalcare di nuovo le orme del suo presunto modello, ambientando – al pari dello scrittore scozzese – il secondo esperimento di narrazione lunga nel mondo della prostituzione.

Nel suo caso, però, tutta la ruvidezza della prima opera si è dissolta in una successione di storie concatenate in cui violenza e sesso sono percepibili per lo più indirettamente, filtrati attraverso una cortina di monologhi interiori, sogni, visioni e fantasie che occupano gran parte del romanzo. Ne deriva un’opera poderosa in cui sono utilizzati con grande abilità gli strumenti del modernismo letterario e che delinea, attraverso di essi, un universo in cui il grigio delle rappresentazioni metropolitane si alterna agli squarci colorati e luminosi dei desideri che costellano le esistenze di un’umanità clandestina, marginale e totalmente mercificata. Clemens Meyer, che è un grande cronista della fine della guerra fredda, dà forma a una visione non convenzionale dei dieci anni a cavallo del millennio, dal 1995 al 2005, in cui l’occidente fu travolto dall’apertura di un est trasformato in una sorta di grande supermarket del sesso a pagamento, capovolgendo la prospettiva d’osservazione.

Nel romanzo sono le prostitute e, soprattutto, i loro sfruttatori ad avere la parola e a restituire un’immagine traslucida e quasi tranquillizzante del loro mondo. Tant’è che all’apparizione del romanzo, in Germania ci sono state reazioni non sempre benevole da parte della critica di orientamento femminista. Ma il quadro che Clemens Meyer delinea è tutt’altro che pacificato. Se è vero che i sogni abbondano, che le fantasie di liberazione di prostitute giovani e meno giovani si legano a desideri ordinari, comuni a innumerevoli esseri umani non necessariamente legati all’universo dello sfruttamento sessuale, pure l’occhio del narratore traspone la rappresentazione della sofferenza su un altro piano e, in primo luogo, sul piano della solitudine che accomuna i suoi sperduti individui. Il correlato inevitabile della rappresentazione tutta «in soggettiva» del suo tema è l’isolamento dei personaggi e delle loro storie.

Per questa ragione, nelle quasi settecento pagine del libro sono rarissimi gli incontri e sono, quasi sempre, conseguenza della disperazione, del dolore, della privazione. Per di più sono incontri illusori perché ogni abitante di questo paradiso artificiale resta prigioniero di ricordi e desideri che non può condividere né perdere, a rischio di non ritrovare più la via verso se stesso. Così si accumulano – con effetti talvolta patetici, talvolta umoristici – le fantasie più varie: da quelle più ovvie (il ritorno a casa, l’indipendenza economica, la costruzione di una multinazionale del sesso) a quelle più dolorose, come quella – diventata celebre in Germania – della prostituta adolescente che vuole ritrovare un numero di Topolino collegato, per lei, ai bei ricordi della sua infanzia.

Fra le pagine, ci si imbatte nella grottesca storia dello sfruttatore Hans Scannaporci, che uccide e squarta il cadavere del suo ricattatore in un episodio, e in quello successivo si comporta come un adolescente innamorato; o in quella straziante dell’ex fantino che da anni vaga per le strade delle livide città dell’ex DDR alla ricerca della figlia, diventata forse una prostituta, ma certamente, per lui, l’unica speranza a cui si conceda di credere. È evidente che la complessità della narrazione, l’ingarbugliato intreccio delle storie, il prevalere dell’interiorità sulla rappresentazione oggettiva, la difficoltà di discernere fra realtà e immaginazione rendono il romanzo assai più arduo del precedente. Ma Meyer non è un autore ingrato, permette sempre, al lettore, di riconoscere al di là delle molteplici stratificazioni narrative del suo libro, il filo di un episodio, di una storia o, comunque, un motivo unitario; e nell’insieme dei suoi racconti sprofonda l’idea di un ovest felice, pacificamente adagiato nei suoi appagabili desideri.

Il sogno, per il buon surrealista Clemens Meyer, non è il luogo in cui possa trovare soddisfazione una nostalgia romantica, ma uno strumento disvelatore; e la rivelazione non è profetica, ma analitica. Perché i sogni che accomunano prostitute e sfruttatori, per quanto, in apparenza, collegati alla loro più intima natura e diversi fra loro come diversi sono gli individui che li nutrono, sono in realtà forgiati dalle convenzioni, dalla pubblicità, dall’industria culturale e pseudoculturale, dai miti del successo e del denaro.

A ispirarli sono personaggi famosi, canzoni, fumetti, film, che spacciano prospettive di costose felicità a un’umanità fragile e sola, la cui unica ambizione è accumulare denaro sufficiente a pagare un frammento di lusso artificiale.
Nell’universo di Clemens Meyer, insomma, anche il sogno ha perduto il suo potere eversivo ed è sottomesso alle regole del gioco: anziché dischiudere le porte di una contro-vita liberata dalle norme di funzionamento di una quotidianità luccicante e oppressiva si è piegato alle logiche del mercato, della produzione, del profitto e si è fatto veicolo di fantasie organizzate e amministrate da un’anonima volontà generale.

Anche questa non è un’idea nuova; già Breton aveva concepito la visione di un mondo destinato a terminare con una grande pubblicità. Ma in Meyer il sogno è diventato anche un onnivoro deposito del mondo: un deposito in cui ogni cosa trova il suo posto, un omogeneizzatore in cui il Capitale di Marx sta accanto ai fumetti di Walt Disney o ai programmi di una televisione-spazzatura che sforna illusioni e assorbe desideri, fabbrica un mondo meraviglioso con i pezzi mal assemblati dell’anima altrui.

La conseguenza di tutto questo è la trasformazione del mondo medesimo in uno spazio in cui ogni avventura è possibile perché non ci sono più confini definiti fra verità e finzione, fra realtà e illusione; e questa visione delle cose permette a Meyer di sfornare idee narrative con invidiabile abbondanza, perché ogni frammento di un mondo simile invita all’esplorazione e genera storie. Non per nulla negli ultimi anni l’attività di Clemens Meyer come autore di racconti, sceneggiatore, adattatore dei propri testi per la televisione, il cinema e il teatro sembra non conoscere soste.

Per la sua scrittura, le corsie di un supermercato protagoniste del racconto e del film Valzer fra gli scaffali sono l’equivalente metropolitano del bosco romantico, le finestre illuminate dei casermoni popolari sono satelliti in viaggio nel cosmo e gli appartamenti di risulta in cui le operaie del sesso esercitano la loro professione sono i nidi, i rifugi, gli spazi accoglienti perduti o desiderati e riconquistati nella forma di un redditizio surrogato.

Persino il linguaggio che descrive tutto questo asseconda la vaghezza di contorni in cui la società dei sogni consumabili immerge ogni cosa: la lingua di Clemens Meyer è difficile (e impervio, ma brillantemente risolto è stato il compito dei due traduttori) perché ogni cosa ha più facce e gli eufemismi dello slang, le metafore del gergo diventano altrettante espressioni dell’ambiguità del reale. Ogni oggetto ha due o più nomi perché nulla è più solo ciò che sembra.
In questa ottica ha senso anche lo strano titolo scelto per l’edizione italiana. Quello originale, Im Stein, correttamente tradotto (a p. 516) con l’espressione «dentro al mattone», è – come spiega Meyer – il modo di dire gergale per la prostituzione esercitata nel chiuso di un appartamento e non all’aperto, per strada.

È dunque plausibile che i locali in cui lavorano le prostitute del romanzo possano apparire anche come «caverne». Ma il titolo, dispiace dirlo, tradisce la logica della narrazione: perché il sogno amministrato trasfigura sempre in meglio la realtà di cui si appropria, e una prigione diventa ben più facilmente «casa» che non «caverna».