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Clemencic, le note vive

Clemencic, le note viveRené Clemencic

Ricordi/Un anno fa se ne andava il musicologo e compositore austriaco È noto nel nostro paese per aver riattualizzato il flauto antico e per aver reso in musica suoni e rumori del «corpo medievale»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 15 aprile 2023

Un anno fa moriva il polistrumentista, musicologo, docente e compositore austriaco René Clemencic, in un ospedale di Vienna, dove nasce il 27 febbraio 1928: ma la capitale austriaca è solo una delle tante metropoli (Parigi e Berlino in primis), che, fin da giovane, frequenta da artista e studioso poliglotta (tedesco, francese, italiano parlati alla perfezione) con molteplici interessi, dalla matematica alla filosofia, sino all’approccio al clavicordo, di cui diventa virtuoso appena diciannovenne. Per quanto concerne l’Italia, la notorietà arriva soprattutto tra il 1975 e il 1976 quando Clemencic inizia a pubblicare con l’etichetta di Arles Harmonia Mundi, ben distribuita anche nel nostro paese, dove la casa discografica, sulla spinta delle rivoluzionarie attività etnomusicologiche degli ultimi due decenni, testimonia la prossimità esistente tra la musica antica e quella popolare: difatti, in quegli anni, Harmonia riedita, facendoli conoscere in tutto il mondo, sia Chants des mendiants en Italie (1966) del cantastorie lucano Matteo Salvatore sia il collettivo Bella Ciao (1965), spettacolo a cura di Roberto Leydi con Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Caterina Bueno, Giovanna Marini, Michele L. Straniero, Ivan Della Mea e il Gruppo Padano di Piadena.
Per Harmonia i coevi due lp Les plaisirs de la Renaissance e René Clemencic et ses flûtes sono il risultato espressivo di una ricerca attiva da quasi un decennio, formalizzato nel 1969 con la fondazione del Clemencic Consort, un gruppo con tre cantanti e oltre quaranta orchestrali (a seconda delle esigenze dei repertori), provenienti da tutto il mondo: non solo interpreti, ma anche filologi, nonché scopritori di tesori creduti persi, nella storia della musica che va dall’alto medioevo al tardo barocco. Per René non si tratta solo di valorizzazioni artistico-musicali, bensì di un nuovo atteggiamento per così dire politico e culturale nei confronti di alcune epoche verso cui l’accademismo (soprattutto di matrice religiosa, sia cattolica sia protestante) tende a circoscrivere o misconoscere gli aspetti ludici, collegiali, trasgressivi: lungo il Novecento, infatti, la tradizione concertistica poggia essenzialmente sul (pre)concetto di sonorità divine in fatto di Medioevo, Rinascimento, Barocco, escludendo o persino censurando il carattere gioioso, festivo, volgare, osceno di una musica amata via via dalle classi subalterne, dalla nascente borghesia, dalle corti illuminate. Clemencic al proposito rileva il puritanesimo e il cecilianismo (ovverosia il movimento ufficiale della musica religiosa cattolica preconciliare) che negli ultimi cent’anni determinano una visione austera e mistica, per nulla gioviale, aperta o laicizzante delle culture musicali passate, in contraddizione, fra l’altro, con il XVIII secolo libertino, democratico, enciclopedista persino in musica come mostrano i casi evidenti dell’opera buffa italiana, del genio di Mozart e addirittura del filosofo Rousseau in veste di compositore.

427 CANZONI
Anche nei confronti della musica sacra, Clemencic ha una visione pragmatico-realista: riscoprendo i Cantigas de Santa María redatti durante il regno di Alfonso X il Saggio (1241-1284) re di Castiglia, in lingua galiziano-portoghese, scopre che le miniature accostate ai testi delle 427 canzoni – fino allora interpretate da sole voci – rappresentino suonatori con una varietà incredibili di strumenti a fiato, a corde, a percussioni, in uso anche per le feste popolari. Dei Cantigas Clemencic offre quindi parecchie versioni sia in recital sia su vinile, a fine anni Settanta, dove metaforicamente inscena l’estro, la fisicità, il calore, la comunicativa: Clemencic insomma recupera un’opera a lungo castigata da letture mortificanti, rivitalizzando l’idea dell’arte del passato quale libera espressione corporea, anche quando si raccontano gli episodi della giovane vergine Maria. In Italia Clemenic diventa quindi, per un attimo, famoso proprio nello sdoganare il flauto antico, quasi a renderlo alla portata di tutti (almeno negli ascolti): già con quello «classico» (dolce e traverso), sin dalla fine dei Sessanta, si assiste a un uso pop del flautismo, grazie a tre differenti situazioni: lo studio e la prassi nelle scuole medie, la divulgazione indiretta alla tv di un solista come Severino Gazzelloni, la moda nel rock con il progressive, dove eccelle Ian Anderson dei Jethro Tull, in grado di citare Bach in mezzo a bassi, batterie, chitarre elettriche. Clemencic inoltre – con una prestigiosa raccolta di ben ventiquattro flauti diritti o a becco, lignei o di corno, usati nel secondo album – incuriosisce il folk rock, soprattutto britannico, irlandese, bretone di aerea celtica che, in parallelo, sta già dando ottimi frutti sul piano del connubio fra tradizione e novità: è proprio grazie a dischi e concerti del Consort, mai concessosi alle lusinghe mediali (unica parziale eccezione la colonna sonora per il film Molière di Ariane Mnouchkine dalle composizioni originali), che il movimento revival, in tutto il mondo, allargherà il consenso internazionale, dove i maggiori beneficiari sono forse i Chieftains, sestetto dublinese, anch’esso popolarissimo dopo la soundtrack per il kubrickiano Barry Lyndon (1976).

IL CAPOLAVORO
E proprio il 1976 è l’anno del capolavoro di Clemencic, il disco Roman de Fauvel, dove si avverte, la «grana grossa» del suono facendo diventare ancora più labili i confini tra musica antica, pop, rock, folk, jazz e musica contemporanea neoavanguardista. Il Roman de Fauvel è un poema satirico francese d’inizio Trecento, dove le vicende dell’asino Fauvel (nome acronimo dei sette vizi capitali) mette alla berlina il potere, ovverosia la politica e la religione dell’epoca, condannandone in musica sia la corruzione sia l’immoralità dei costumi. Il testo è noto alla musicologia perché in uno dei manoscritti, oltre le tante miniature, vengono frammisti brani monodici e polifonici, riferibili al compositore Philippe de Vitry. «Il disco di Clemencic – spiega assai bene il professor Vincenzo Borghetti nel fondamentale saggio Purezza e trasgressione: il suono del Medioevo dagli anni Cinquanta ad oggi su Il Semicerchio. Rivista di poesia comparata – conserva la struttura del manoscritto e inserisce le composizioni nella narrazione dei versi del poema, affidandola a un recitante che si accompagna alla ghironda. La voce è quella di René Zosso, un performer che spazia dalla musica tradizionale a quella medievale a quella d’avanguardia elettroacustica, il cui stile di recitar cantando ricorda molto da vicino quello di De André e di altri cantautori italiani degli anni Sessanta e Settanta».
In maniera paradigmatica, il Medioevo immaginato da Clemencic suona molto più radicale e innovativo rispetto a quello ascoltato in precedenza: «In primo piano non c’è la musica medievale; c’è soprattutto il corpo degli uomini del Medioevo, un corpo che non è solo percepibile nella ‘grana’ delle voci e dei suoni, bensì un corpo che è ostentato attraverso le sue manifestazioni sonore. Le imbarazzanti note gravi della tromba marina, le oscene flatulenze della cornamusa, la riproduzione ‘dal vero’ di schiamazzi sono esempi concreti di quei suoni che la cultura del suono ‘classico’ e del vivere civile ritiene da secoli impresentabili, e che adesso qui sono letteralmente sbattuti in faccia all’ascoltatore. Il disco del Roman de Fauvel di Clemencic è quindi una delle più efficaci realizzazioni musicali delle teorie sul grottesco medievale e sul valore positivo del corpo e le sue espressioni più ‘impudiche’(…)».
E sembra quasi che Clemencic voglia attuare lo stesso metodo acquisito dallo storico Mikhail Bakhtin nel libro su Rabelais (1970): entrambi apriranno le porte a una visione più libera (e liberata) di un periodo storico completato nella narrativa da un romanzo come Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco o nella divulgazione dai recenti programmi di Alessandro Barbero.

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