In una parola
Rubriche

Clausewitz, Anceschi, Luporini, Ingrao, Anders

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Pubblicato circa 3 ore faEdizione del 18 ottobre 2024

Una premessa. Nel 1832 appare Della guerra di Clausewitz. Le odierne guerre smentiscono la seguente affermazione del generale prussiano: «È chiaro che se i popoli civili non uccidono i prigionieri, non distruggono città e villaggi, ciò deriva dal fatto che l’intelligenza ha in essi parte maggiore nella condotta della guerra ed ha loro rivelato l’esistenza di mezzi d’impiego della forza più efficaci di quelli derivanti dalle manifestazioni brutali dell’istinto». Le odierne guerre invece confermano un’altra affermazione di Clausewitz: «La guerra è un atto di forza, all’impiego del quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo».

L’estremo della guerra, dall’agosto del 1945, è l’impiego della bomba atomica. «La guerra» insegna Clausewitz, «è un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi». L’estremo della politica dunque, dall’agosto del 1945, è l’impiego della bomba atomica. Quattro postille. Riguardano una idea di politica concepita come mezzo per promuovere e coltivare la libera espressione della umanità di ciascuno, istanza che, ormai, ai giorni nostri, risulta definitivamente scomparsa.

1. Luciano Anceschi pubblica nel 1936 Autonomia ed eteronomia dell’arte. Saggio di fenomenologia delle poetiche. Leggo: «(…) poetare è fare: poesia è creazione di un intermondo che si afferma a sua volta, come concreto, tanto da volere, talora, sostituire rivoluzionariamente il mondo stesso delle apparenze (…) poesia e parola affermano la loro capacità alla creazione di mondi effettuali». E ancora: «Il fare della poesia s’afferma (…) come ‘il potere delle parole’ di fissare in un luogo dell’universo concreto i prodotti dell’immaginazione: istituzione di un mondo nuovo, più perfetto, più felice».

2. Cesare Luporini, nel 1942, in Situazione e libertà nell’esistenza umana scrive: «tutti i valori sentiti in relazione alla libertà passano attraverso l’espressione, sia essa ‘parlata’ o no, ma sempre in qualche modo sensibile (estetica), ed è, per così dire, l’espressione stessa a scoprirli, precisarli, distinguerli».

E conclude: «Da questo punto di vista integrale la parola è sempre azione e l’azione è sempre parola».

3. Pietro Ingrao, ragiona il nesso politica libertà a partire da constatazioni avvertite fin dagli anni Sessanta e messe a punto con estrema ed inconfutabile nettezza negli anni Ottanta. Si tratta, cito testualmente da una ‘conversazione’ del 1986 pubblicata da Aldo Garzia su «Palomar», della «difficoltà del linguaggio politico a tener conto di una visione polimorfa delle cose e della soggettività». Il linguaggio politico ossia, nei termini di Anceschi «la capacità alla creazione di mondi effettuali» ovvero una praxis realizzatrice. Viceversa, si è attestata e dilaga una modalità del fare politica che semplifica, che si attiene al mero dato di fatto immiserita, diminuita, com’è, della capacità di intendere per trasformare. Ingrao aveva riguardato, dice, a «una possibilità e a una speranza in una creatività della politica che riuscisse ad esprimere un allargamento dell’esistere. Vedo oggi una crisi di questa capacità».

Con il ricorso al termine «complessità» Ingrao, a ben vedere, introduce ad un oltre, allude dunque al bisogno di un’apertura volta ad innescare un processo effettivo che miri ad affermare, a istituire le condizioni reali capaci di consentire e alimentare l’espansione del ‘multiforme’ di ciascuno, un «allargamento dell’esistere» che liberi ogni dinamica interiore a configurare relazioni umane corrispondenti.

4. Günther Anders in Sulla plasticità dei sentimenti (La bomba e la nostra cecità all’Apocalisse in L’uomo è antiquato, 1956), parla, come Ingrao, della necessità di un «ampliamento della capienza del nostro sentire», ma ritiene debba essere un compito affidato non alla politica, ma alla «volontà» di ciascuno in contatto con il potere maieutico delle forme d’arte. Una sinfonia di Bruckner, scrive, «fatta da un uomo, in un certo senso dunque anche fatta ‘da noi’, appare come uno strumento fatto da noi stessi, con l’aiuto del quale dilatiamo la capienza della nostra anima».

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