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Clarissa Goenawan, perdersi nel noir

Clarissa Goenawan, perdersi nel noirUna scena da «Tokyo Story» di Yasujiroō Ozu (1953)

Ombre e misteri d'Asia Intervista all'autrice di «Watersong» (Carbonio) che descrive i fantasmi del suo Giappone immaginario. «Questo genere narrativo risuona intorno a me mentre cerco di indagare nelle profondità enigmatiche della natura umana»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 12 agosto 2023

A segnare la vita di Shoji Arai sono un tragico evento avvenuto quanto il giovane giapponese non era che un bambino e quanto gli ha detto un giorno un’indovina, pronunciando una profezia di sventura legata all’incontro con tre donne i cui nomi ricordano l’acqua.

In Watersong, terzo romanzo di Clarissa Goenawan, pubblicato come i precedenti da Carbonio, tornano i temi cari alla scrittrice di Singapore nata in Indonesia, ma che ha scelto di ambientare le proprie storie in Giappone. Il mistero dell’esistenza, intrecciato ai fantasmi che popolano le vite dei protagonisti, è alla base di un’indagine dai contorni noir che però sovente sembra scivolare nel sovrannaturale. In Rainbirds, il romanzo d’esordio dell’autrice 35enne, era la morte della sorella della protagonista, ne Il mondo perfetto di Miwako Sumida si trattava invece di un suicidio inspiegabile, in questo caso l’enigma che fa da sfondo alla storia sembra essere iscritto nella stessa biografia di Shoji Arai, il protagonista, e delle tre donne che incontrerà, Yoko, Mizuki e Liyun.

Una misteriosa sala da tè di Akakawa, la località di fantasia dove Goenawan ambienta i propri racconti, e che i personaggi raggiungono fuggendo in qualche modo da Tokio, rappresenta la principale «scena del crimine» non tanto perché vi abbiano luogo efferati delitti, ma perché è qui che le ombre che accompagnano le traiettorie esistenziali dei protagonisti emergono in tutta la loro inquietante drammaticità.

La scrittrice Clarissa Goenawan

I suoi romanzi mettono in scena il sentimento della perdita: dall’elaborazione del lutto allo smarrire il legame con chi ci è caro, fino al perdere se stessi o non riuscire a fare luce fino in fondo su qualcosa che ha avuto un ruolo decisivo nella nostra vita. Cosa rappresenta per lei tutto ciò?
La perdita è una forza potente che traina i miei personaggi, determina le loro scelte e decide dei loro spostamenti e viaggi. Ovviamente non si tratta solo della perdita fisica di una persona, ma anche dell’impatto emotivo e psicologico che ciò lascia dietro di sé. L’esplorazione del sentimento della perdita mi permette così di approfondire la complessità delle emozioni umane, delle relazioni e della crescita personale dei miei personaggi. È anche un modo per esaminare le diverse sfaccettature dell’identità di ciascuno di loro e come affrontano, e affrontiamo tutti, le incertezze della vita.

Un’altra caratteristica che sembra tornare nelle sue storie è la solitudine in cui si dibattono la maggior parte dei personaggi, quasi una caratteristica antropologica, nel senso che permea le loro vite anche al di là della loro volontà.
La solitudine è un’esperienza umana universale, e sono davvero molto attratta dall’idea di costruire delle figure che la affrontano in vari modi, tra loro anche del tutto divergenti. Del resto, credo che sia attraverso la solitudine che spesso affrontiamo il nostro «io» interiore, le nostre paure e i nostri desideri, anche quelli più reconditi. In qualche modo usiamo la solitudine come un mezzo per la scoperta di noi stessi e per riflettere sulla nostra difficile condizione di esseri umani.

In «Watersong», l’incontro tra diverse traiettorie segnate dalla solitudine si intreccia ad un lavoro particolare: l’essere pagati per ascoltare degli sconosciuti senza reagire a ciò che possono dirci. Viene da pensare ad una seduta di psicoanalisi, ma in realtà si tratta di tutt’altro. Cosa aveva in mente quando ha immaginato la particolare «sala da tè» in cui lavorano i protagonisti?
L’idea di questa specifica «sala da tè» è nata dal mio desiderio di creare uno spazio sicuro in cui le persone potessero esprimersi liberamente, senza paura del giudizio degli altri. Da questo punto di vista, credo si tratti di una sorta di rifugio in cui le persone possono sfogare i propri pensieri e dare libero corso alle proprie emozioni. L’atto dell’ascolto assume perciò un ruolo profondo, evolvendosi in una forma di empatia e comprensione dell’«altro».

In ciascuno dei suoi romanzi, seppure in modo sempre diverso, emerge un mistero da chiarire, un’«indagine» che i personaggi sono costretti o invitati a compiere: è l’aspetto delle sue storie che la critica definisce «noir». Quale rapporto ha con questo genere narrativo e per lei cosa celano questi misteri da svelare?
Il genere del noir risuona intorno a me mentre cerco di indagare nelle profondità enigmatiche della natura umana. Sono incuriosita dal modo in cui i personaggi affrontano situazioni moralmente complesse. E i misteri da risolvere forniscono una struttura perché l’esplorazione abbia effettivamente luogo, consentendo ai personaggi di scoprire segreti e affrontare l’ignoto mentre sono alle prese con le proprie verità.

I suoi libri sono ambientati in Giappone, perché questa scelta e cosa ama o la affascina in modo particolare della società o della cultura giapponesi? Oltre alla letteratura giapponese lei ama molto anche i manga: esiste un filo narrativo che lega i manga e ai suoi romanzi?
Sono cresciuta mentre la cultura popolare giapponese stava emergendo con forza a livello globale. Fin da piccolissima le mie giornate sono state riempite dalle pagine dei manga e dell’affascinante mondo delle «anime» (i film d’animazione giapponesi, nda). Poi, crescendo, il mio interesse si è ampliato fino ad abbracciare anche la letteratura giapponese, una passione che si è poi approfondita ulteriormente con il tempo. Tra gli autori che amo di più ci sono Murakami Haruki, Yasunari Kawabata, Banana Yoshimoto, Yoko Ogawa, ma anche Stephen King. Il fascino accattivante della cultura tradizionale giapponese, con le sue tradizioni durature e la loro rilevanza anche nella modernità continua ad affascinarmi. Quanto alle forme narrative e visive dei manga, credo che abbiano innegabilmente influenzato anche il mio modo di scrivere.

Le sue storie, compresa quella che fa da sfondo a «Watersong», convergono tutte intorno ad una località di fantasia, la cittadina della provincia giapponese di Akakawa. Si tratta di un luogo che ha «costruito» pensando a qualcosa in particolare?
In effetti, Akakawa è una creazione della mia immaginazione, eppure trae ispirazione da un luogo reale. È vagamente basata sui ricordi che ho di Malang, una bella città della parte orientale di Giava, in Indonesia. Quando ero piccola, la mia famiglia si spostava spesso dalla mia città natale, Surabaya, a Malang per visitare un parente e quei viaggi del fine settimana hanno lasciato in me un’impressione duratura. Proprio come le scatole di un tesoro, i miei romanzi racchiudono gli elementi che amo di più: i libri che preferisco, il cibo che mi piace e, in questo caso, alcuni dei ricordi più cari di quel tempo.

Quando si pensa all’Asia di oggi, e in particolare al Giappone dove sono ambientati i suoi romanzi, la tecnologia ha un ruolo spesso preponderante. Le sue storie sono al contrario ambientate negli anni Novanta, prima dell’avvento degli smartphone. Una scelta evidentemente deliberata…
La decisione di ambientare le mie storie in quel periodo è frutto di una riflessione precisa: si trattava proprio di un’epoca antecedente alla diffusione degli smartphone. Anche se riconosco la comodità della tecnologia moderna, c’è in me un senso di nostalgia per i giorni in cui i telefonini non erano una presenza costante. Al giorno d’oggi, riesco a malapena a immaginare di uscire di casa senza il mio telefono, soprattutto per gli appuntamenti e le call programmate. Eppure, durante la mia infanzia nei primi anni ’90, le persone si riunivano semplicemente nel luogo concordato al momento giusto. C’era un’autenticità in quelle interazioni che a volte mi manca.

Non ha mai pensato di scrivere un romanzo ambientato a Singapore e cosa cambierebbe, nella storia come per i personaggi, in questo caso?
Anche se al momento non ho ancora piani specifici in tal senso, l’idea è comunque intrigante. Se il romanzo fosse ambientato qui, è chiaro che le dinamiche della storia e il profilo dei protagonisti rifletterebbero le sfumature multiculturali e l’ambiente urbano della città-Stato in cui vivo.

LA SAGA DI AKAKAWA, TRA SCOMPARSE E RICORDI D’INFANZIA

Clarissa Goenawan, classe 1988, è una scrittrice di Singapore nata in Indonesia – ma che ambienta tutte le sue storie nella cittadina giapponese (di fantasia) di Akakawa – considerata come una promessa della letteratura asiatica. Il suo romanzo d’esordio, «Rainbirds» (Carbonio, 2021), uscito in lingua inglese nel 2018 e selezionato per diversi premi, ha vinto il Bath Novel Award 2015. I suoi racconti hanno ottenuto numerosi riconoscimenti e sono stati pubblicati in varie riviste letterarie e antologie. «Il mondo perfetto di Miwako Sumida» è stato pubblicato sempre da Carbonio nel 2022. Il terzo romanzo della scrittrice, «Watersong» (pp. 312, euro 17,50) è uscito recentemente sempre per la casa editrice milanese e nella preziosa traduzione di Viola Di Grado, cui si devono già anche le traduzioni dei due romanzi precedenti. Per seguire la scrittrice: www.clarissagoenawan.com

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