Doveva splendere un bel sole primaverile quando il primo maggio del 1515 dal vascello Nossa Senhora de Ajuda, insieme a spezie profumate e uccelli dallo sgargiante piumaggio, sbarcò a Lisbona un rinoceronte indiano. A Belem, la torre bianca che fortifica la porta d’accesso alla città ancora conserva un suo ritratto in marmo. Strabiliati, i portoghesi accorsero per osservare di persona quella creatura aliena, gigantesca, con un affilato corno sul naso e la pelle simile a una corazza, che il Sultano Muzafar II aveva regalato al loro re Manuel I per tramite del governatore Afonso de Albuquerque. L’esemplare, costretto ad affrontare un viaggio pieno di insidie, si chiamava Ganda, ma i marinai avevano trovato per lui un nome più consono alla mitologia fondativa d’Occidente: Ulisse, in omaggio al suo vagabondare per oceani.

Nessuno, in Europa, ricordava più le fattezze dell’animale. Nei secoli, la sua figura si era sovrapposta a quella dell’unicorno, soprattutto nei bestiari medioevali o nelle cronache di mercanti ed esploratori, mentre uno dei pochi riferimenti alla sua esistenza reale era ancora rappresentato dal racconto del leggendario combattimento fra un rinoceronte e un elefante narrato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia. Una descrizione della lotta così potente che nel 1575 fornirà originale materiale ad André Thevet per le illustrazioni nella sua Cosmographie universelle, titanica opera che descriveva le geografie e le terre da lui visitate. Ulisse ebbe una vita breve poiché, rispedito per mare alla volta di Roma come offerta diplomatica a Leone X, affogò in catene nel naufragio della sua nave di fronte La Spezia. La consuetudine dei doni viventi suggellava accordi politici e alimentava la passione per i serragli esotici di molti potenti, a dimostrazione di conquiste coloniali e conseguente lusso, ma al pontefice stavolta fu recapitata solo una carcassa impagliata.

La tenuta in Bengala dove tu tenuta per due anni Clara presso la famiglia di Jan Albert Sichterman

Prima del tragico epilogo, un mercante tedesco aveva inviato a Norimberga una lettera raccontando con toni entusiastici la prodigiosa visione, accompagnandola con alcuni schizzi di propria mano. E così, il più grande pittore, disegnatore e incisore tedesco dell’epoca, Albrecht Dürer, ne trasse quella che per lunghissimo tempo è rimasta la sua immagine ufficiale, seppure di fantasia: una xilografia ritraeva l’animale con un corno sulla schiena e una pelle bitorzoluta, percorsa da escrescenze, che lo rivestiva a mo’ di armatura bellica (la particolarità della pelle colpì pure Rudyard Kipling che nel 1902 scrisse la favola How the rhino got his skin). Quel rinoceronte d’invenzione e assai verosimile fu il modello per innumerevoli copie e finì sulle pagine di atlanti scientifici. Attraversò l’universo letterario e artistico di diverse epoche – Dalì da bambino ne aveva una riproduzione in camera che accese la scintilla della sua celebre filosofia «rinocerontesca» – fino a quando fu detronizzato da un esemplare femmina, che in una manciata di anni si trasformò in una superstar europea, navigando su fiumi e mari per esibire semplicemente se stessa nelle corti più raffinate e nelle piazze pubbliche. Darà vita a un’ossessione e a un immaginario pop in pieno Settecento, costellato da dipinti, porcellane di Meissen, pagine narrative, oggetti preziosi, monete con la sua effigie fino alle capigliature delle nobildonne francesi che indossavano parrucche à la rhinocéros.

La nuova regina era Clara, creatura pachidermica e mansueta cui il Rijksmuseum di Amsterdam dedica una documentatissima mostra (visitabile fino al 15 gennaio), testimoniando l’illusionistica costruzione di un fenomeno e una delle prime campagne pubblicitarie di strepitoso successo. Se nell’America dei pionieri il circense Barnum vendette biglietti per accedere a stupore e sogni con il suo Jumbo, l’elefante dalle proporzioni smisurate, nell’Europa del XVIII secolo l’impresario era stato invece lo spregiudicato capitano Douwe Mout van der Meer che, grazie alla fortuna del suo nuovo mestiere, aveva potuto lasciare la nave Knappenhof che era al servizio della Compagnia delle Indie Orientali. Infatti, da quel 22 luglio del 1741 quando attraccò al porto di Rotterdam con il suo bottino vivente a bordo, non si fermò più: il suo vertiginoso tour si arrestò soltanto con la morte di Clara, avvenuta a Londra nell’aprile del 1758. Fino ad allora, la rinocerontessa aveva dovuto accettare lo stressante destino di girare senza sosta per diciassette anni, percorrendo in lungo e largo il Vecchio Continente, da Versailles alle Terme di Diocleziano a Roma.

Opera di Jean Joseph de Saint Germain e François Viger

Il curatore dell’esposizione Gijl van der Ham ha ricostruito minuziosamente le tappe della sua permanenza sulla terra, scegliendo come perno della ricerca l’influenza sull’iconografia del tempo e sulla conoscenza stessa dei rinoceronti, tramandata con locandine pubblicitarie, volumetti, pamphlet, cronache, pubblicazioni di librai e testimoni vari dell’apparizione, sempre preceduta da un gran frastuono «mediatico». Attraverso quell’animale ridotto a freak da baraccone, la mostra olandese allestisce un Grand Tour alla rovescia, una lettura insolita della storia dell’arte settecentesca, impaginata in apertura con il quadro che riproduce la tenuta in Bengala della famiglia di Jan Albert Sichterman, anche lui connesso alla Compagnia delle Indie Orientali e primo proprietario di Clara. Rimasta orfana – sua madre era stata uccisa dai cacciatori –, fu addomesticata e allevata nella sua casa per due anni, fino al passaggio nelle mani di Douwe Mout che la consegnerà a futura memoria.
Clara è dunque il ghost che popola le sale del Rijksmuseum. La vediamo sorreggere con il suo fisico massiccio un orologio sopra un carillon (opera di Jean Joseph de Saint Germain e François Viger) e poi quel medesimo oggetto lo scopriamo sulla mensola della stanza di Maria Luisa di Borbone a Parma, questa volta dipinto, nel quadro di Laurent Pêcheux. Le tendenze della moda richiedevano la sua ingombrante presenza nelle case del potere.

Nel 1749 al pittore animalista della corte di re Luigi XV, Jean Baptiste Oudry, non sfuggì il suo arrivo a Parigi e la ritrasse a dimensione naturale in una tela enorme, con un’accuratezza di dettagli da restituirne quasi i lenti movimenti, pure dello sguardo. Esposta al Salon nello stesso anno, l’opera fu acquisita dal duca Christian Ludwig II of Mecklenburg-Schwerin, insieme a una serie di dipinti e disegni: oggi il museo di Schwerin – che dal 2008 dopo un restauro ha appeso alle pareti stabilmente Clara – possiede la più nutrita collezione al mondo di opere di Oudry.

A Venezia, di fronte alla «bestia» ostentata in un casotto per il Carnevale del 1751, si trova, fra il pubblico, Casanova. C’era anche Pietro Longhi, pronto a immortalare la scena con vivace piglio giornalistico. Dipinse un piccolo quadretto (ne esistono due versioni, una a Ca’ Rezzonico, ora in prestito ad Amsterdam, e l’altra alla National Gallery di Londra) e lo fece su commissione dando seguito al desiderio di Giovanni Grimani, signore che nella sua dimora sfoggiava la mania per esemplari rari (vivi). Probabilmente, colui che brandisce il corno per richiamare l’attenzione dell’animale mentre distrattamente mastica fieno è proprio l’impresario Douwe Mout. L’esibizione veneziana non fu un trionfo: infastidita da una folla indisciplinata, Clara si innervosì sbattendo più volte contro il recinto, facendo fuggire gli spettatori. Lei e il suo «capitano» furono invitati a lasciare al più presto la città.

Particolare dell’installazione di Rossella Biscotti

Alla fine, l’arte contemporanea irrompe in mostra con l’italiana Rossella Biscotti e la sua complessa installazione che, sul corpo di Clara, rintraccia il segno commerciale delle tratte coloniali. Qui, il peso del rinoceronte è tradotto in mattoni mentre cibo e vizi (pare le piacesse masticare il tabacco), compreso il suo valore monetario, completano la trasmutazione alchemica ed economica dell’animale fino alla sua scomparsa. La veridicità della sua esistenza appartiene ormai all’Olimpo delle icone: è uno stampo, un gadget-feticcio, inciso su ogni mattone.