In Magdalene Laundries, titolo che indica i famigerati conventi adibiti a lavanderie dove si calcola che, nel secolo scorso in Irlanda, vissero circa 30.000 donne, Joni Mitchell canta: «Ero ragazza e non sposata/ avevo appena compiuto i ventisette anni/ quando mi mandarono dalle sorelle/ per come mi guardavano gli uomini./ Marchiata come Gezabele/ capii che non ero destinata al paradiso/ e sarei sprofondata nella vergogna/ delle lavanderie della Maddalena». Le ragazze come lei erano orfane, figlie di genitori indigenti, vittime di stupro, madri a cui venivano sottratti i figli concepiti «immoralmente», adultere o comunque «donne cadute» secondo la morale cristiana e per questo cacciate dalle rispettive famiglie. Sebbene non mancassero sospetti su quanto accadeva in quei conventi, recluderle era per i più un atto di conformismo ineluttabile. Le denunce che cominciarono a moltiplicarsi negli anni Novanta, rivelavano come le mura di quelle lavanderie, vere e proprie carceri rese invisibili dall’omertà, nascondessero ogni sorta di abuso e di violenza. I bambini sopravvissuti venivano spesso venduti a famiglie americane benestanti, solitamente all’insaputa delle madri.

Sono molti i casi legali che documentano questi fatti, di cui oggi circolano altrettante testimonianze in documentari, film e libri, cui si aggiunge Piccole cose da nulla, il romanzo di Claire Keegan (meravigliosa traduzione di Monica Pareschi, Einaudi, pp. 104, € 13,00). La trama non ripercorre fatti veramente accaduti, si premura di dichiarare l’autrice in una nota: a costruirla è soprattutto l’introspezione di un protagonista fittizio, Bill Furlong, la cui progressiva presa di coscienza diviene il reagente con cui interrogare il gravame ideologico che intorno a lui ha permesso certe atrocità passandole sotto silenzio. Bill e i suoi concittadini, non a caso, vedono riflessa nel clima ostile che li circonda la durezza delle loro esistenze; e i loro dialoghi tirano spesso in ballo la stanchezza e la povertà, per poi mascherare l’abnegazione e lo spirito di sacrificio con cui le affrontano. Man mano che l’affresco si allarga, Claire Keegan mostra gli abitanti di New Ross afflitti dallo spettro della disoccupazione che infesta l’Irlanda degli anni Ottanta. La regolarità meccanica di quel vivere senza orizzonti, in cui «le domeniche possono essere davvero giornate estenuanti e crudeli», legittima a se stessi scelte egoistiche di sopravvivenza, comprese le più beghine e omertose.

In un contesto dove le eccezioni non sembrano contemplate, il protagonista del romanzo è, anche lui, tutt’altro che una eccezione. Le ombre del passato – sua madre, una ragazza nubile, che non gli svelò mai il nome del padre – incombono con il loro carico di dubbi e di frustrazione; ma c’è anche gratitudine verso la donna che li accolse assumendo sua madre come domestica, nonostante l’onta del concepimento fuori dal matrimonio. Bill comincia a osservare con un certo disagio la naturalezza delle persone a lui vicine, in primo luogo le sue cinque figlie, mentre accettano i ricatti morali del vivere in una comunità chiusa e pettegola. Un  avvenimento (che non riveleremo) induce Bill a avvertire i sintomi di una riluttanza non ancora ragionata, dalla quale si intuisce che potrebbe nascere un gesto di ribellione, lo sfilarsi da una certa eredità e dai suoi errori. Alla signora Kehoe, che lo mette in guardia rispetto alle suore, perché «hanno le mani in pasta dappertutto», replica: «avranno il potere che le diamo, non le pare»?

Salvo rari passaggi, a prevalere nel romanzo è un atteggiamento di esplorazione aperta e generosa, uno stile narrativo obliquo e compassato che si specchia nel minimalismo del titolo e, forte dell’allusione alle «piccole cose» di Arundhati Roy, suggerisce una sintesi di ancoraggio realistico e di velleità mistica. La leggerezza della sintassi, i dettagli minuti ma vigorosamente esplicativi, la resa cristallina dei pensieri dei personaggi e i profili tersi delle immagini sollecitate mostrano una sobrietà rappresentativa che, nella migliore delle tradizioni estetiche, permette alla lingua di farsi specchio di un microcosmo sociale essenziale e spartano. La particella comparativa del titolo originale, «Small things like these», incalza la curiosità del lettore mentre segue Bill negli sviluppi decisivi della trama. In quei passaggi di prosa, intrecciati da un ritmo avvincente, ci si chiede quali spinte orientino le scelte di una persona che, «nel suo piccolo», decide di poter cambiare lo stato delle cose; ma è proprio la conclusione aperta del romanzo a suggerire la risposta.