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Citto Maselli, il patito comunista

Citto Maselli, il patito comunista

Intervista Dalla Resistenza alla nebulosa degli intellettuali di sinistra, il Leone d'oro mancato, i film: il regista si racconta

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 4 settembre 2021

Entro in casa e la figura di Maselli si staglia contro una parete arricchita da una composizione di Mario Ceroli…ma è un inganno visivo, c’è una diversa spiegazione: il lavoro è di Maselli stesso che raccolse da un mulino abbandonato ruote in legno e ne fece con maestria un tableau sul tempo che scorre. Con una tecnica simile allestì, con tavole di legno istoriate, la spalliera del suo letto matrimoniale. Avrei voluto porgergli una domanda frivola, estemporanea e cioè a cosa era dovuta l’acconciatura dei suoi capelli a caschetto che lo aveva sempre contraddistinto ma, ahimè, Citto era stato da poco dal barbiere che con le sue forbici aveva dismesso quel vezzo…

Luigi Pirandello, una frequentazione e un rapporto certamente non comuni.
Pirandello era una figura familiare in casa. Il figlio, Stefano Landi, aveva sposato mia zia e Pirandello stesso era stato il mio padrino di battesimo (fu lo scrittore ad usare il vezzeggiativo di «Citto» perché da piccolo non riusciva mai a pronunciare il proprio nome, Francesco, per intero. Citto in italiano significa appunto «piccolino»).

L’infanzia, la tua adolescenza sono contrassegnate dalla presenza costante di intellettuali. Per esempio, il Premio Strega è nato in casa tua. Me ne parli?
Maria Bellonci era una degli intellettuali che frequentava casa mia. Un giorno qualcuno propone di istituire un premio letterario. Coinvolgono mio padre che era il critico letterario de Il Messaggero e viene coinvolto, pure, Corrado Alvaro. Ma per un premio ci vogliono molti soldi. Si individua l’imprenditore giusto in Guido Alberti, proprietario del liquore Strega. Lui ci sta a patto che il premio prenda il nome dal liquore. Furono tutti d’accordo e fu così che andò. Ma giravano per casa anche Bontempelli, Alberto Savinio , Emilio Cecchi.

Ennio Flaiano ti affibbia il soprannome: «il patito comunista».
(ride) Sì, è vero, era a causa della mia magrezza. Pure Flaiano, che personaggio!
Era un uomo di un’intelligenza incredibile.

E poi, per rimanere in tema, che dire di tua sorella Titina, pittrice?
Spaziò dal futurismo alla pop-art, si sposò con Toti Scialoja…

Mi risulta che vendette il suo primo quadro a Riccardo Gualino, vero?
Sì, è vero.

Mi parli del tuo primissimo film, un corto in 8mm?
Si intitolava Sinfonia del viandante, del ’45. Parlava di un uomo che vagava per le strade di Roma spiando il volto dei passanti, facendo domande, tanto per farti capire come la giornata di Ulysse ma, attento, è un paragone colto che non regge. A mia sorella Titina facevo fare la parte di una prostituta, in minigonna. Purtroppo non ce l’ho più.

Che mi dici di Monicelli?
Oh, con Mario eravamo molto amici, ci frequentavamo regolarmente. Eravamo entrambi habituée di «Otello alla Concordia»… (subentra Stefania Brai, la moglie, donna di rara intelligenza ) Mario lo ricordo un po’ burbero.
A me è sempre sembrata una posa, lo ricordo divertente e compagnone. Sul set sicuramente era molto intransigente, persino duro.
(Stefania) Era nell’aria il destino che lo fece volare dalla sua stanza d’ospedale.
A me lo aveva detto parecchie volte, in tempi non sospetti: se si fosse ammalato, se fosse stato costretto a farsi accudire da moglie e figlie, avrebbe fatto il salto. Mi risulta che uno dei medici lo trattò in modo paternalistico; pare gli abbia detto: «Adesso nonno fai il bravo e obbedisci ai tuoi parenti», qualcosa del genere. Penso fosse quella la classica goccia. Si buttò dal terrazzino appena quel medico uscì dalla stanza.

Parliamo, tanto per essere un po’ retorici, del tuo cursus honorum. Nel ’48 sei assistente di Antonioni per il documentario «L’amorosa menzogna»; nel ’53 sei con Zavattini in «Storia di Caterina», nello stesso anno lavori con Visconti il quale ti metterà in grado, due anni dopo, di esordire con «Gli sbandati»…
Gli sbandati fu girato nella villa di Arturo Toscanini, anche lui tra gli intellettuali che frequentavamo, a Ripalta Guerrina in provincia di Cremona. Mi misi d’accordo con la figlia, Wally, e ce la prestarono gratuitamente.

Volevo dire… hai attraversato il secolo breve da protagonista. Bene, di quelle citate e comunque di altre, qual è la persona che ha influito di più sulla tua formazione? E quale ricordi con più affetto?
Sicuramente Zavattini e Antonioni, fuori di dubbio. E sono gli autori ai quali sono più legato. Non posso dimenticare Visconti però, anche lui basilare per la mia formazione.

Volonté era il protagonista de «Il sospetto». Il film si ricorda, anche, per una frase icastica che gli fa dire così:«Sono un militante del Partito Comunista Italiano e non ho altro da dichiarare». L’hai scritta tu? E Volonté, com’era?
La frase era un’indicazione della Terza Internazionale ed io la riportai tale e quale. Gian Maria era un uomo molto complesso, a tratti duro. Sembrava che cercasse sempre lo scontro ma, come posso spiegarti, non era un atteggiamento strumentale. Un po’ come quegli sportivi che alzano sempre di più l’asticella per misurare le proprie capacità.

Al liceo Tasso sei entrato nella Resistenza. Concretamente come?
Con il proselitismo e il volantinaggio. Portavo L’Unità, allora poco più che un foglio, nelle case in modo del tutto anonimo. Lo piegavo in quattro e lo facevo passare sotto le porte. Al Tasso con me c’era Aggeo Savioli, capo degli studenti medi nel Pci clandestino e che sarebbe diventato poi il mio capo diretto nella Resistenza. Alfredo Reichlin e Luigi Pintor sarebbero stati fra i miei maestri. Una volta ci venne la voce che le Beretta cal.9 usate dai partigiani facessero spesso cilecca, si inceppavano. Allora fu necessario munirci di pistole a tamburo. Una volta mi fu dato l’incarico di portarne un po’ a Pintor. Le incartai bene in fogli di giornale e andai all’appuntamento con Pintor che mi aspettava davanti alla chiesa di Santa Teresa in corso d’Italia.

Un aspetto di te misconosciuto: facevi le imitazioni. Beh, sono incuriosito.
No, non erano proprio imitazioni. E poi era una sola: rifacevo il verso alla figura del capo-comparse. Lo feci anche una volta ad una cena in onore di Fellini il quale non capì lo scherzo, pensò che mi stessi sentendo male e si sentì male a sua volta, pregando Giulietta di portarlo via.

Come mi incuriosisce molto una tua mostra di Polaroid tenuta a Parigi nel 1979 al Palais de Tokyo.
Fu Calvino a incoraggiarmi. Erano foto affidate a una Polaroid professionale fissata su una giraffa che mi riprendevano nel corso di una notte intera mentre dormivo, a intervalli regolari (Stefania me le fa vedere e sono sicuramente interessantissime; alcune in doppia esposizione, dai colori rutilanti, ricordano gli esperimenti di Warhol).

Nanni Moretti, in giuria a Venezia (1986), si oppose al Leone per il tuo «Storia d’amore». So che Robbe-Grillet, presidente di giuria, si era battuto a tuo favore.
Moretti mi detestava e il sentimento era ricambiato. Fu Lattuada a venirmelo a dire: se mi avessero premiato, lui sarebbe uscito dalla giuria. Pare proprio che se ne stesse già andando e fu Alberto a rincorrerlo e a riportarlo indietro. Ebbi il Gran Premio Speciale della Giuria.

Che cosa vuol dire essere di sinistra oggi?
Lottare per un mondo migliore, più giusto, più vivibile. Sembra una enunciazione di meri intenti, so che non è facile ma questo vuol dire essere di sinistra. Libertà, uguaglianza, emancipazione.

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