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Città, piccoli centri e pandemia

Città, piccoli centri e pandemiaRoma – Ap

Covid-19 Abbandonare le città in favore dei piccoli centri? Molti sono luoghi che si sono progressivamente depopolati non per un capriccio, ma perché qui la vita è dura: i servizi lontani, le opportunità lavorative quasi nulle, le relazioni sociali asfittiche

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 24 aprile 2020

Negli ultimi giorni diversi intellettuali si sono cimentati su come la pandemia potrebbe cambiare le nostre città. Tra questi due noti architetti, Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas che, con accenti diversi, hanno entrambi sostenuto la necessità di incoraggiare la dispersione residenziale, una sorta di «fuga dalla città», come risposta alla pandemia.

Stefano Boeri ha dichiarato: «Servirebbe quindi una campagna per facilitare la dispersione, e anche una ritrazione dall’urbano . L’Italia è piena di borghi abbandonati, da salvare. Abbiamo un’occasione unica per farlo. Io penso a un grande progetto nazionale: ci sono 5800 centri sotto i 5000 abitanti, e 2300 in stato di abbandono. Se le 14 aree metropolitane adottassero questi centri, con vantaggi fiscali e incentivi…».

Un simile ragionamento appare tuttavia claudicante – oltre ad avere, dopo decenni passati a stigmatizzare la vita suburbana e a decantare il trionfo delle città, il sapore ironico della spericolata capovolta intellettuale.

Glissando sulla retorica trita dello smart working (che dovremmo smettere di amplificare acriticamente) che accompagna queste riflessioni, vorrei soffermarmi sull’idea della necessità di abbandonare le città, in favore dei piccoli centri.

Sono almeno due le debolezze di tale idea. La prima è relativa al presupposto su cui si basa: quello che, al tempo della pandemia (considerata tra l’altro come destinata a durare svariati anni, forse decenni, quando tutto ciò non è affatto certo), la densità residenziale è un problema in sé. Su tale presupposto sollevo alcuni elementi di dubbio – alimentati anche dalla constatazione che, per ora, le aree più colpite dal Covid-19 in Italia non sono solo e tanto aree a elevata densità residenziale, ma anche zone, al contrario, di profonda dispersione (come la provincia di Bergamo).

È davvero la densità residenziale in sé a essere un problema o forse lo è la «densità fisico-relazionale» (intesa come densità di contatti fisici ravvicinati tra le persone) e i modi con cui questa viene vissuta? Se fosse la «densità fisico-relazionale» a essere problematica, non si vedrebbe alcun bisogno di favorire la dispersione residenziale (che non diminuirebbe necessariamente la densità fisico-relazionale). Sarebbe piuttosto opportuno ripensare i modi ordinari di vivere le città.

Ma anche se il presupposto del carattere pernicioso della densità residenziale fosse vero, la proposta della «ritrazione dall’urbano» rimane poco convincente. Sembra infatti nutrita da un romanticismo tipico di chi i piccoli comuni li ha vissuti solo da turista – e, probabilmente, solo per una minuscola frazione, costituita da meravigliosi centri storici in un paesaggio idilliaco.

Ma, purtroppo, non tutti i piccoli comuni italiani sono luoghi di questo tipo, e nemmeno i 2300 borghi in stato di abbandono. Molti di questi ultimi sono paesini quasi inaccessibili, non necessariamente affascinanti dal punto di vista architettonico e spesso privi dei servizi pubblici essenziali – in cui, sovente, la connessione internet è decisamente zoppicante, con buona pace dello smart working.

Sono luoghi che si sono progressivamente depopolati non per un capriccio, ma perché qui la vita è dura: i servizi lontani, le opportunità lavorative quasi nulle, le relazioni sociali asfittiche. Per andare a scuola, all’ospedale o a prendere il treno devi farti un’ora di auto su strade tortuose – i difficilmente percorribili nella stagione invernale.

Chiariamoci, non sto mettendo in discussione la necessità di valorizzare e rilanciare i piccoli centri, ma il fatto che tale rilancio possa rappresentare un’alternativa praticabile alla vita urbana come l’abbiamo conosciuta fino a ora e debba trasformarsi in una delle principali politiche urbane nell’epoca della pandemia.

Per di più, quest’idea salvifica della dispersione non tiene minimamente in conto i costi: quante risolse pubbliche servirebbero per rendere «pienamente agibili» questi piccoli centri abbandonati? E quale, per gli individui e la società, il costo ambientale ed economico della dispersione residenziale?

Prima di alimentare visioni manichee sulla bellezza della dispersione e della vita nei piccoli centri da contrapporsi all’incubo della vita urbana, mi sembra necessario rispondere a tali quesiti. Per ripensare seriamente le forme ordinarie della vita urbana (e rurale), senza farsi abbagliare da vacillanti visioni estetizzanti.

* Docente di geografia economica e politica, Università di Torino

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