Fëdor Dostoevskij, per bocca del vescovo Tìchon, confessore di Stavrogin, dichiara sonoramente nei Demonî: «L’assoluto ateismo si trova sul penultimo gradino della scala verso la fede perfetta (che faccia o no l’ultimo passo), mentre l’indifferenza non ha nessuna fede, ma soltanto una stolida paura». Non esiste definizione migliore per inquadrare il pensiero di Emil Cioran, sferzante motteggiatore rumeno trasferitosi in Francia a partire dal 1937, forse il più autentico interprete del post-nietzschianesimo e della crisi della metafisica occidentale. Nato nel 1911 a Rasinari dentro la remota Transilvania, dopo un breve periodo berlinese grazie alla borsa di studio erogata dalla Fondazione Humboldt, Cioran pubblica a soli ventitré anni il suo primo libro, un saggio in stile aforistico e apodittico il cui titolo, Al culmine della disperazione, ben delinea il pessimismo radicale del suo autore. Un altro interessante volume giovanile è Lacrime e santi, che segue Il libro delle delusioni e attesta antinomicamente la tensione spiritualistico-contemplativa (Emil era figlio di un sacerdote ortodosso). Nell’anno del viaggio a Parigi in virtù di un dottorato promosso dall’Institut Français di Bucarest, lo scrittore rumeno ha all’attivo già quattro opere, una delle quali – Trasfigurazione della Romania – sarà poi pesantemente emendata in un angosciato autodafé, a causa di «stupide» affermazioni antisemite (dirà, in seguito, di sentirsi «ebreo metafisicamente»).
I trecento fogli del manoscritto, rinvenuto qualche anno fa alla Bibliothèque Littéraire Jacques Doucet di Parigi (e stampato da Gallimard nel 2019), si collocano cronologicamente tra il ’40 e il ’44, quando Emil ha ormai deciso di stabilirsi in via definitiva nel paese transalpino, ma continua il suo lavoro letterario nella lingua madre. Da sette anni il «fanatico dell’eventualità» si trovava a «muffire gloriosamente nel Quartiere Latino», bighellonando con amarezza pari a radi picchi d’esagitato entusiasmo. È in questo bollente crogiuolo interiore che Cioran scrive i frustoli di Finestra sul nulla (a cura di Nicolas Cavaillès, traduzione di Cristina Fantechi, Adelphi «Piccola Biblioteca», pp. 227, € 14,00), quasi completamente inediti, se non per una breve selezione finita su «Luceafarul», la rivista degli autori rumeni in esilio fondata da Mircea Eliade.
Come osserva Cavaillès nella Premessa: «In poco tempo, passata la trentina, il giovane intellettuale prodigio di Bucarest è molto invecchiato; adesso vaga nell’anonimato dei boulevard di Parigi, e in piccole, provvisorie camere d’albergo imbratta centinaia di pagine illeggibili (non gli è ancora apparsa la radicale soluzione della scrittura in una lingua diversa dalla sua, che gli farà condensare nei suoi due primi libri in francese, Précis de décomposition e Syllogismes de l’amertume, tutta la materia romena accumulata, ivi comprese la sua inutilità e la sua rabbia – e lì integrerà anche alcuni aforismi sparsi trapiantati dalla presente raccolta). Man mano che è sprofondato nell’esilio, la sua “vocazione” filosofica si è dissolta in una nebbia cinica e scettica, e con essa tutte le sue convinzioni, poiché ormai non vi è più nulla di preferibile né di giustificabile».
Nella carrellata dei funesti – e sardonici – frammenti figurano i temi preferiti di Cioran, che saranno la fornace di testi come La tentazione di esistere (1956), La caduta nel tempo (’64) e L’inconveniente di essere nati (’73): il ressentiment e la misantropia («Il difetto dell’uomo è di credere nell’uomo»); posizioni sentimentali a dir poco schopenhaueriane («L’amore è la demenza delle narici. Profumo effimero di carne e di putrefazione…»); l’inatteso elogio della commozione («Se le lacrime sopravvivessero agli occhi, l’uomo sarebbe salvo»); una devozione illimitata per Bach («All’infuori di Bach, qualsiasi impeto sonoro assomiglia a una strofetta farfugliata», e si ricordi la sentenza tratta dai Sillogismi dell’amarezza: «Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio»); tetre elucubrazioni di un insonne febbrile e incallito («La morte è il prolungamento – senza coscienza – di un’implacabile insonnia…, una veglia eterna al di fuori dello spirito»); la tragedia dell’incomunicabilità («Ciò che fa soffrire un tizio, le sue preferenze, le sue decisioni, tutto questo io non lo capisco. L’universo è composto da vicini impenetrabili»); un ascetismo inverso à la Meister Eckart («L’estasi è la sola possibilità di irrompere ingenuamente nell’irreale. E la mistica l’unico mezzo di consolarsi – attraverso il nulla – del nulla»); la nausea ontologica e il suo dénouement («Tutto mi disgusta – e non posso vivere solo…»); la più perforante patoteologia con imprevedute accensioni di fede («Dio è il solo avversario che non risponda ai colpi»); il miracolo come essenza del vivere oltre il nulla («Tutto è miracoloso; niente è naturale; l’esistenza in quanto tale è soprannaturale»).
L’aspetto più lancinante della prosa cioraniana, oltre alle zone di lucidità e all’evidente contrasto riga per riga, risiede nell’estrema capacità di sintesi: come ridurre al nocciolo le posizioni di uno Zeno Cosini? Et voilà: «La salute è una malattia incompleta». Resta da chiedersi quale filigrana abbia la dimensione nichilistica intravista dal pensatore. Secondo Cavaillès, «ogni pagina bianca è una finestra aperta sull’infinito». La chiave potrebbe essere questa: Cioran appartiene a quella dinastia di scrittori dotati di un tasso fenomenale di autoprovocata unreliability: dietro alle loro sapide costruzioni c’è sempre un calcolatissimo envers du décor, che a furia di anatemi e negazioni – il cosiddetto metodo apofatico – finisce per creare, volontariamente o involontariamente, squarci di rara affermazione, i quali, riguardando la vulnerabilità di stati percettivi, indicano il bisogno mentale di Dio secondo l’argomento da una base adeguata di Alvin Plantinga (cioè, la necessità di Dio potrebbe essere giustificata indipendentemente dalle prove della sua esistenza). Del resto proprio Cioran, «apolide metafisico», disse in un altro suo folgorante apoftegma: «Vivo perché le montagne non sanno ridere né i vermi cantare».