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Ciol, fotografo dell’armonia

Ciol, fotografo dell’armoniaElio Ciol, Palmira, Via Colonnata, cavallo e ragazzi, 29-marzo 1996 (courtesy of the artist)

Intervista Il maestro veneziano, classe 1929, si racconta in occasione di un incontro a Pordenonelegge

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 28 settembre 2019

L’archivio personale di Elio Ciol (classe 1929) è accanto al garage, a Casarsa, sua città natale, nella villetta circondata dal giardino: contiene migliaia tra stampe e negativi. Quello professionale, invece, è nella vecchia casa dove ora vive suo figlio Stefano, che prosegue la tradizione di famiglia. «Qui ci sono le fotografie fatte con il cuore, non commissionate», afferma Ciol indicando le cartelle in perfetto ordine, soffermandosi sulle stampe a colori in cui ha colto i dettagli dei putti dipinti dal Pordenone, per passare ai mosaici policromi di Aquileia (prossimamente gli sarà dedicata una mostra al Museo dell’Ara Pacis a Roma).

Elio Ciol ha fotografato anche molti siti archeologici (tra cui Leptis Magna, Sabrata e Palmira), il trecentesco borgo fortificato di Venzone in Friuli Venezia-Giulia (gravemente danneggiato dal terremoto del ’76, fu ricostruito anche grazie alla sua documentazione fotografica) e numerosi altri monumenti, attento osservatore di un passato che nelle sue immagini appare tutt’altro che cristallizzato.

Proprio a questo sguardo rispettoso e partecipe Pordenonelegge 2019, in occasione della sua ventesima edizione, ha dedicato a Elio Ciol l’incontro «L’arte di scrivere d’arte» a Casa Zanussi, promosso a cura del Centro iniziative culturali di Pordenone.

È cresciuto tra gli acidi ereditando la professione di fotografo da suo padre Antonio…
Ogni tanto, per scherzo, dico che sono nato in camera oscura. C’era bisogno di aiuto e fin da piccolo ho dato una mano imparando tante cose, a partire dagli sviluppi: 3 grammi di metol, 5 grammi di solfito… Ogni settimana dovevo preparare un fiasco di questo sviluppo e poi lavare, tagliare le fotografie. Mio padre aveva iniziato quest’attività nel ’22, insieme al fratello Emilio, a San Giovanni di Casarsa. Poi quando si sposò venne a Casarsa e aprì un piccolo studio fotografico. Mio zio rimase lì e suo figlio Franco ha continuato a lavorare nel negozio di foto ottica che ora è gestito dalle figlie.

In un dialogo con Michele Smargiassi ha parlato anche delle foto dei defunti che metteva in posa per renderli «fotogenici»…
(sorride) L’attività di noi fotografi, soprattutto quella che dava una certa rendita, erano i matrimoni e anche i funerali. Subito dopo la guerra, soprattutto tra gli anni ’50 e ’60, molti emigranti quando moriva qualcuno della famiglia chiedevano ai parenti di fotografare il morto, documentare il funerale e spedirgli le foto. Come scrive Smargiassi, spesso quella era anche la prima fotografia del defunto. Dato che quando la luce arriva dal basso altera completamente il volto della persona, giravo il defunto in modo che questa arrivasse dall’alto. Avevo quest’attenzione anche pensando a chi avrebbe conservato la sua memoria, perché la persona fosse vista nel modo migliore.

Quando è stato il momento in cui ha cominciato a fotografare in maniera artistica?
Nel ’48 a Udine partecipai per la prima volta a un concorso sul paesaggio friulano. Vinsi il terzo premio. Una soddisfazione che mi diede un po’ il via. Da ragazzo, infatti, volevo fare il meccanico, risolvere i problemi tecnici. Da allora, invece, accettai completamente di fare il fotografo.

Tra il ’55 e il ’60 ha frequentato il circolo fotografico «La Gondola» a Venezia. Al di là del dibattito sulla fotografia amatoriale e professionale, qual è stata per lei l’importanza dei circoli?
Attraverso i concorsi che venivano organizzati e la partecipazione agli incontri, si vedeva il fatto espressivo di tanti altri fotografi, cosa fotografavano, come lo facevano e in che modo presentavano il lavoro. Questo era il compito dei circoli e suggerivano continuamente delle nuove indicazioni come traiettoria di scelta dei soggetti.
Con «La Gondola» è stata una bella esperienza, anche se non andavo tanto spesso a Venezia, perché non era così facile.

Invece, quando ha iniziato a fotografare l’arte?
La mia passione per l’arte e la documentazione delle opere d’arte è nata a Udine, dove c’era un circolo animato dal professor Carlo Mutinelli, direttore del museo archeologico di Cividale, un grande storico dell’arte che ogni settimana faceva una conferenza con proiezione episcopica. Parlava in modo meraviglioso facendo vivere l’esperienza dell’arte in tutti i suoi aspetti. Però una volta gli chiesi perché non usasse le diapositive. Lui mi rispose domandandomi, a sua volta, se fossi in grado di farle. Certo che le sapevo fare! In seguito mi incaricò anche di documentare fotograficamente il museo di Cividale, dalle piccole opere alle grandi.

Qual era la sua emozione nel documentare un reperto del passato?
Scoprire il bello, il senso dell’armonia di questi reperti che mi comunicavano un grande fascino. Sentivo di crescere un po’ per volta, che l’orizzonte s’allargava. Io, come sono stato definito tempo fa, cosa che tra l’altro mi ha fatto molto piacere, ero un fotografo contadino. Casarsa era un piccolo paese di campagna e anche tutti i miei amici erano contadini. Li invidiavo anche un po’ perché loro ogni giorno cambiavano lavoro, perché in campagna ci sono tante cose da fare, a seconda del momento e della stagione.

Anche la fotografia, però, permette di lavorare a soggetti diversi…
È così e c’è anche la luce, l’andar fuori per campi. Ogni tanto scappavo dalla camera oscura per andare a prendere un boccone d’aria e vedere quelle belle composizioni al naturale dei filari, sia delle viti che dei gelsi. Ci vedevo l’armonia. Ero innamorato di questi aspetti, dell’aria e della luce.

Proprio con quelle immagini in bianco e nero, scattate nel ’96, si è aggiudicato il terzo premio del World Press Photo 1997 nella sezione Natura e Ambiente…
Ho partecipato proponendo il tema dei gelsi come sculture e delle viti come disegni nella campagna friulana e ho continuato a fotografarli anche dopo. Quegli alberi rappresentano l’economia che portava un po’ di soldi alle famiglie. Le donne si prendevano cura dei bachi da seta in tutte le fasi. Un lavoro in più, rispetto a tutto il resto. Si alzavano di notte per tagliare le foglie di gelso che nutrivano i bachi. Era una fatica notevole però gli uomini, i padroni della famiglia, per un tacito accordo in tutta la comunità, lasciavano a loro l’incasso della galletta. Le donne potevano usarlo per le loro spese, spesso per fare la dote alle figlie. Poi è arrivata la seta dalla Cina e la fatica non ha più ripagato la produzione. L’attività oggi non c’è più ovviamente, ma i gelsi rimangono come monumenti nella campagna.

Un tempo si doveva andare via dal Friuli, c’era molta povertà. È così?
Sì, c’era molta povertà e in alcune parti anche miseria. Anch’io da ragazzino sono più volte andato a confessarmi per aver rubato il pane dall’armadio di casa, non solo lo zucchero. Non c’era mica l’abbondanza allora.

Nella sua visione c’è sempre stata una dichiarata componente cristiano-cattolica.
Sì. Sono nato e cresciuto all’ombra del campanile, ma ho vissuto le mie scelte con convinzione. In un certo senso, in un’epoca in cui era tutto in mano di altre persone, questo aspetto di fotografo contadino cattolico mi ha penalizzato professionalmente. Lo dico senza fare polemiche.

Casarsa è anche la città di Pier Paolo Pasolini. Nel suo archivio ci sono fotografie che lo ritraggono in momenti diversi.
Era una frequentazione occasionale. Lo avevo conosciuto da ragazzo, quando veniva da Bologna a passare le vacanze d’estate nella casa del mio amico Nico Naldini che era il cugino, figlio di una delle zie materne. La prima foto che lo ritrae è del 1945, quando disse all’amico Ovidio che l’indomani avrebbe annunciato la nascita dell’Accademiuta di lenga furlana e di avvisarmi di portare la macchina fotografica. Avevo 14 anni quando feci quella foto di gruppo davanti alla chiesetta di Versuta.
Ci furono anche altri incontri che ho documentato, ad Assisi nel’63 quando Pasolini dette l’annuncio dell’uscita del film Il vangelo secondo Matteo e poi l’arrivo di Maria Callas a Casarsa il 1 settembre 1969. Pier Paolo aveva telefonato alle zie dicendo che sarebbe andato a trovarle con la cantante lirica, ma di non dirlo a nessuno. Un momento dopo lo sapeva tutto il paese! (ride). Mi raccomando di esser lì puntuale con la macchina fotografica, mi disse la zia elettrizzata. Ho fotografato anche il suo funerale a Casarsa il 6 novembre 1975.
Venne anche padre Turoldo che fece un bel saluto, il corteo si fermò solo un momento davanti alla chiesetta di Santa Croce e poi proseguì fino al cimitero, seguito da una marea di persone.

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