Cini, dall’adamantina Platonia a spazi di esperienze sensibili
"La Fondazione Giorgio Cini. Settant’anni di storia", un volume a più voci curato da Pasquale Gagliardi e Egidio Ivetic, Marsilio Arte Il recupero di tutti gli spazi dell’isola, il rinnovamento delle strutture, la costruzione di foresterie e d’ambienti per gli studiosi costituiscono lo sforzo più peculiare nel ventennio appena trascorso
"La Fondazione Giorgio Cini. Settant’anni di storia", un volume a più voci curato da Pasquale Gagliardi e Egidio Ivetic, Marsilio Arte Il recupero di tutti gli spazi dell’isola, il rinnovamento delle strutture, la costruzione di foresterie e d’ambienti per gli studiosi costituiscono lo sforzo più peculiare nel ventennio appena trascorso
La Fondazione Giorgio Cini, compiuti i suoi settant’anni, ha voluto raccontarli in un sontuoso volume illustrato, La Fondazione Giorgio Cini Settant’anni di storia, curato da Pasquale Gagliardi e Egidio Ivetic (Marsilio Arte, pp. 288, euro 50,00). Storia lunga, quella della fondazione creata da Vittorio Cini in memoria del figlio Giorgio, che col tempo s’è andata arricchendo di vari episodi, con la creazione di nuovi istituti, dedicati alle varie sfaccettature del sapere.
Vocata alla laboriosa coltivazione dello spirito, l’isola lo era già nei tempi in cui ospitava un monastero benedettino e il motto ora et labora correva di bocca in bocca ai frati. Adesso l’orazione è laica, gli orti sono mutati in giardini e i libri non più realizzati in carta pecora, ma il luogo non ha mutato la sua essenza.
Ripercorrerne brevemente la storia non sarà forse inutile. Prima ancora che, nel 982, i benedettini vi fondassero la loro abbazia, l’isolotto di San Giorgio Maggiore era già dedicato al culto. Aveva allora il nome, vagamente böckliniano, d’isola dei cipressi ed era d’aspetto assai più dimesso, giacché gli imponenti lavori di ampliamento non sarebbero iniziati che nel 1434. Ma, a partire da quell’anno, l’abbazia prese assai rapidamente le fattezze che ammiriamo ancora oggi, grazie agli interventi di Giovanni Buora e del figlio Andrea, poi di Palladio e infine di Baldassarre Longhena, che realizzò il monumentale scalone, la biblioteca, gli appartamenti degli abati, la foresteria e l’edificio del noviziato. Durante l’occupazione francese, tuttavia, l’edificio sofferse l’oltraggio delle truppe, né vide giorni più floridi, allorché le divise, mutate di colore, divennero quelle del Regno d’Italia. Quando Vittorio Cini lo scelse come sede della sua Fondazione, i suoi magnifici fabbricati erano impiegati come depositi e caserma. La rinascita dell’isola dovette attendere così il 1951.
Molti cambiamenti sono avvenuti da allora, senza che l’anima dell’istituzione sia stata mai tradita, e chi volesse ripercorrerli non avrebbe che da prendere i due volumi che hanno preceduto questo: Venezia 1951-1971. Vent’anni di attività della Fondazione Giorgio Cini e La Fondazione Giorgio Cini. Cinquant’anni di storia. Negli ultimi venti anni, che son poi quelli coperti dal nuovo libro, la Fondazione ha abbandonato quel che ancora v’era in lei di nobile ed adamantina Platonia per farsi luogo d’esperienze vive e sensibili, nel quale la cultura non si realizza più soltanto nell’astratto foro del dibattito delle idee, ma s’incarna negli spazi, nei giardini, nelle performances, nella musica. Come la gelida Turandot di Puccini, anche la Cini a un certo punto ha sentito risuonare le parole di Calaf: «La tua anima è in alto,/ ma il tuo corpo è vicino!».
In uno dei contributi del volume, Gagliardi racconta com’egli trovò la Cini al suo arrivo, nel suo immacolato splendore di marmo: «Ogni giorno l’immagine che avevo della Fondazione si metteva a fuoco con maggiore chiarezza: l’istituzione (…) mostrava, forse proprio in virtù dei suoi indiscutibili successi, un relativo disinteresse per il mondo esterno e i suoi “giudizi” (…) mi parve che le pratiche formative della Fondazione fossero in prevalenza ispirate a una teoria, per così dire, “tradizionale” del trasferimento della conoscenza (…) la conoscenza trasferita è solo conoscenza esplicita, formale, filtrata dall’intelletto. In questa visione non c’è spazio per il ruolo della conoscenza implicita e intuitiva, che si trasferisce attraverso esperienze estetico-sensoriali».
Il recupero di tutti gli spazi dell’isola, il rinnovamento delle strutture, la costruzione di foresterie e d’ambienti in cui gli studiosi possano risiedere per lunghi periodi e quotidianamente dialogare e confrontarsi, passeggiando nel parco o nel chiostro, com’era d’uso presso i Greci e gli altri popoli del mediterraneo, invece che soltanto nella formalità d’un congresso di studi, costituiscono lo sforzo più peculiare fatto dalla Fondazione nel ventennio appena trascorso. La Manica Lunga, che era il convento dei benedettini, è stata restaurata nel 2005 nel rispetto di quella «enfasi architettonica del corridoio» che «pare mettere in evidenza» come «lo spazio d’intimità introspettiva delle celle non ha senso se non è combinato con un luogo comunitario, sociale, che si trova nel mezzo». Anche l’antico cenacolo palladiano è stato rinnovato e le Nozze di Cana del Veronese, ricollocate di nuovo al loro posto in copia ad elevatissima resa, che riproduce anche le screpolature e le imperfezioni dell’originale, restituiscono adesso la pristina esperienza estetica che doveva provarsi nel refettorio, «modificando la percezione dell’insieme come nessun fotomontaggio – spiega Salvatore Settis – nessuna ricostruzione virtuale farebbe mai».
Anche altre parti dell’isola sono state trasformate guardando all’impressione sensibile che si sarebbe ottenuta e che avrebbe accompagnato la comunicazione del sapere. Dallo Squero, destinato ai concerti, col suo sfondo di pareti trasparenti che dà l’impressione d’essere su di un vascello lieve sulle acque, come quello sognato da Dante per sé, per Guido e per Lapo; alle Cappelle Vaticane, disseminate nel giardino – dieci cappelle realizzate da dieci architetti internazionali per la Biennale di Architettura, e poi rimaste come strutture permanenti –, che nelle parole del Cardinal Ravasi rievocano «la costante ricerca dell’umanità nei confronti del sacro all’interno dell’orizzonte spaziale della natura nella quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo»: la Cini vuole, insomma, che i suoi spazi siano innanzitutto vissuti.
Questi concetti, echeggiati un po’ dovunque nel corso del volume (non ultimo Luca Massimo Barbero, che ricorda come, nell’allestimento per la mostra Le Arti di Piranesi, un raffinato intreccio d’animazioni virtuali, proiezioni e modellazioni tridimensionali avesse creato un ambiente avvolgente e cattivante) costituiscono la base del rinnovamento della Fondazione in quest’ultimo ventennio. Il miracolo di Cana non era d’altra parte, come tutti i miracoli – se è lecito comparare i fanti ai santi –, idea fattasi esperienza?
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