Quando realizza insieme a Thierno Faty Sow Camp de Thiaroye (1988) Ousmane Sembène ha sessantacinque anni – come scriveva di sé in un breve autoritratto su «Libération»: «Ho tre figli e sono già nonno – e con questo film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, dove vinse il Premio della Giuria, il regista senegalese, padre morale del cinema africano, affermò pienamente quella che per lui era la sfida più importante sin dagli esordi – nel 1962 col cortometraggio Borom Sarret a cui segue nel 1966 La Noire de…: fare cioè in Africa un cinema autoprodotto, realizzato da «noi africani» senza interferenze sia tecniche che di budget di paesi europei e con l’obiettivo di comunicare a tutti, rendendo l’immaginario un terreno di discussione e di consapevolezza collettivo dove affrontare questioni sociali, etiche, religiose, politiche rovesciandone le interpretazioni dominanti.

«Fogo, l’île de feu» (1979) di Sarah Maldoror

Camp de Thiaroye dunque, presentato nella sezione Cinema libero, non ha alcun supporto economico europeo e anzi, come scrive nel testo sul catalogo Mohamed Challouf – il cui contributo è stato prezioso per questo restauro che fa parte dell’African Film Heritage Project, creato da Film Foundation’s World Cinema Project, Fepaci, Unesco – «i finanziatori e produttori francesi fecero tutto per ostacolarlo» e il Festival di Cannes, dove Sembène era stato con Ceddo (1977, il cui restauro è stato presentato qui lo scorso anno nel centenario della nascita del regista) lo rifiutò. La produzione unisce Senegal, Tunisia, Algeria e una troupe panafricana per un’opera che non solo illumina con precisione la violenza colonialista, il razzismo e la privazione dei diritti in un occidente che si dichiara democratico – Francia e Stati uniti – ma allarga la sua prospettiva a molti altri punti; nel caso francese ai legami con Vichy di gran parte dell’esercito, senza sottrarsi al confronto con ciò che la colonizzazione ha prodotto nell’idea di sé dei soggetti colonizzati e le sue contraddizioni – venne criticato anche in Senegal.

LA STORIA è quella del massacro dei tirailleurs senegalesi, arruolati per lo più a forza nel secondo conflitto mondiale per combattere con l’esercito francese, morti a migliaia, fatti prigionieri, impazziti per i traumi, feriti, che dopo tante sofferenze la Francia umilia con una paga dimezzata e negandogli il diritto di indennità. Quando si ribellano e prendono in ostaggio il generale francese chiedendo un trattamento egualitario, l’uomo gli promette che avranno il dovuto, e invece la notte manda i carri armati al campo uccidendoli quasi tutti. È una mappa della segregazione razziale che si disegna in quel campo di smistamento sperduto nel nulla fuori Dakar, la cui struttura ricorda – e volutamente – quella dei campi di prigionia nazisti. Il cibo fa schifo – «ma questo è ciò che mangiano i tirailleurs», si difende il cuoco, la carne è per i bianchi – in città vige la segregazione razziale con bar e negozi vietati agli africani («indigeni» sono definiti). Fra i tirailleurs c’è il maggiore Diatta, colto, parla francese e inglese, ascolta musica classica – «ma come non ti bastano i tamburi» lo sfotte un capitano francese – legge moltissimo, ha una moglie francese e vorrebbe tornare in Francia appena possibile anche se a poco poco capisce che non sarà mai «francese» mentre su quella cesura ha perduto anche i legami con la famiglia che gli rimprovera il tradimento, di essere passato dalla parte di chi ha sterminato il villaggio e ucciso i suoi genitori. E la Francia come altri paesi, non solo quella lepenista adesso trionfante, non ha mai assunto una reale responsabilità continuando a praticare in contesti diversi le politiche colonialiste con disgregazione, conflitti, marginalità, accordi con governi fantoccio e rapaci.

C’È MOLTO del vissuto di Sembène nel personaggio di Diatta che è stato tirailleurs, è arrivato alla fine della guerra «clandestinamente» in Francia, portuale a Marsiglia, sindacalista, iscritto al Partito comunista, approda alla letteratura prima dei film – il suo primo romanzo, Le docker noir sulla sua esperienza di lavoro al porto è stato pubblicato nel 1956. Per poi tornare in Senegal nel 1960 con l’obiettivo di parlare dell’Africa agli africani: «Volevo trasformare la nostra cultura orale in immagini», lui che il cinema l’aveva scoperto nella sua città, da ragazzo, ma era solo quello dei «bianchi», Chaplin, Keaton, McCarey.

La redazione consiglia:
Sarah Maldoror, la «guerriera» con la macchina da presaRivedere o scoprire Camp de Thiaroye oggi – il pubblico giovane numerosissimo presente in sala lo ha adorato – all’interno di una nuova discussione sui temi coloniali e post-coloniali, ne afferma l’attualità ma soprattutto ci mostra come il suo discorso formale non si limita al «soggetto» o «contenuto» che sia – tendenza oggi assai diffusa – ma nell’uso dell’immaginario, in un’appropriazione libera che «cita» il cinema americano o la blaxploitation e costruisce la propria cifra politica. E grazie a questo nel suo essere memoria storica continua a interrogare il nostro tempo aprendo sempre nuove prospettive.

IL COLONIALISMO indagato alla «prima persona», nella visione antagonista di chi lo ha subito, è al centro della trilogia Festa di Sarah Maldoror – Fogo, l’île de feu, 1979; Cap-Vert, un carnaval dans le Sahel, 1979; A Bissau, le Carnaval, 1980. Maldoror – che è morta nel 2020 – era nata in Francia, il suo nuovo cognome Maldoror lo aveva scelto dal terzo canto del poema di Lautréamont, l’autore maledetto amato dai surrealisti, a dire di un cinema che rovesciava lingua, senso, sintassi, per rinascere meticcio. «La guerriera» come la chiamava Jean Genet era diventata angolana di adozione, aveva seguito il compagno Mario Pinto de Andrade, fondatore dell’Mpla – il Movimento di liberazione dell’Angola – partecipando alle lotte in un lungo periodo di esilio militante. Tra l’altro a Mosca, dove aveva studiato alla scuola del Vgik aveva conosciuto Sembène Ousmane e con lui condivideva l’idea che il cinema può essere uno strumento fondamentale nella decolonizzazione del pensiero del continente visto il tasso altissimo di analfabetismo.

I corti nel programma del Cinema Ritrovato vengono dopo Sambizanga (1972), il suo film più conosciuto, e nascono dalla richiesta delle autorità di Angola e Guinea-Bissau dopo l’indipendenza, e poco prima del colpo di stato in Guinea-Bissau. In Fogo, per esempio, ci sono le feste del Primo maggio, si celebra Amílcar Cabral, ripercorrendo la storia dell’isola, mentre negli altri due sono documentati i preparativi del Carnevale. Frammenti di vita e di cultura che trovano una loro immagine libera, lontana dagli esotismi, nella quotidianità.