Il programma di Cinema ritrovato è sempre più crudele, con scelte impossibili a meno di non sapere prima quale oscuro titolo o ritrovamento sia il più interessante. L’edizione di quest’anno (26 giugno-4 luglio) ha avuto dei prodromi in Piazza Maggiore a partire dal 19 giugno con il chapliniano Il grande dittatore, riportato in auge dalla citazione di Zelenskji che paragonava Putin a Hitler, il 20 con The Warriors (I guerrieri della strada, 1979) con la fuga disperata della gang in una New York pre-Giuliani, notturna e desolata, con duelli coreografati con maestria, film che ha rivelato Walter Hill, di cui verrà presentato al festival anche The Driver, famoso per spettacolari inseguimenti in auto, con un giovane Ryan O’Neal in un ruolo noir. Hill, inoltre, è uno degli ospiti della manifestazione con un’attesa lezione di cinema.

Il 21 serata concerto dedicata a Pasolini, con la proiezione di quello che è il suo film più significativo, La ricotta. Trattasi del restauro di un director’s cut che propone il testo precedente alle mutilazioni censorie, volute dal Procuratore della Repubblica Di Gennaro che lo definì «il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio». Di questo prezioso lavoro di recupero, curato dalla Cineteca Nazionale di Roma, si parlerà in uno degli incontri ad hoc.

E poi i Padrini restaurati, il film-opera Carmen di Francesco Rosi, con Placido Domingo, fotografia coloratissima firmata da Pasqualino De Santis, versione cinematografica di un’opera lirica forse più riuscita del recente film di Martone sulla Bohème. E ancora i cine-concerti per Nosferatu e Femmine folli, ovvero film muti accompagnati dall’orchestra e i musical Singin’ in the Rain e i Blues Brothers presentato da John Landis. E ancora Alice Rohrwacher (prodotta da Cresto-Dina e Alfonso Cuaron) con Le pupille, tratto da un’idea di Elsa Morante, emersa in una corrispondenza con Goffredo Fofi, al quale è dedicato un incontro per la presentazione del suo libro, Son nato scemo e morirò cretino.

Oltre a essere fitto il programma infatti è intrecciato con occasioni di ripensamento e studio, con personaggi come Stefania Sandrelli, Gianni Amelio e John Landis con la moglie costumista e storica del rapporto moda e cinema, Deborah Nadoolman, oltre a direttori di cineteche e critici.
Tra le diverse retrospettive, quella dedicata a Peter Lorre, il geniale e untuoso attore tedesco, il Mostro del langhiano M, che include sia film tedeschi che americani. Un omaggio all’eterna Sofia Loren con alcune delle sue migliori interpretazioni dall’Oscar della Ciociara al divertente giallo firmato da Stanley Donen, Arabesque con Gregory Peck, a Una giornata particolare e Diavolo in calzonicini rosa, sulle compagnie teatrali ambulanti nel Far West, regia di Cukor. Una sezione tratta del cinema yugoslavo degli anni Sessanta da Dite la verità a Makajevev, raccontando le fibrillazioni culturali pre-scissione. Per gli amanti del Far East c’è la retrospettiva dedicata al regista giapponese «autore inconsapevole», Kiru Misumi, dai suoi colorati film in costume, al bianco e nero del Mishimiano Ken.

Diversi i documentari in programma da The Beatles: Get Back di Peter Jackson alla presenza della vedova di George, Olivia Harrison, alla Varda, a The Last Waltz di Scorsese, l’incantevole film dell’ultimo concerto della mitica The Band, al documentario politico di Gideon Bachman, che ha vissuto a lungo in Italia testimoniando i set di Fellini, ma che in questo caso affronta il difficile confine orientale del Carso, tuttora attraversato da immigrati disperati e criminali internazionali.

Una retrospettiva particolare è dedicata all’artista poliedrico Peter Weiss, tedesco- svedese, autore di Marat/Sade e del romanzo Estetica della resistenza, sperimentatore visivo, documentatore sociale presente con alcuni corti e Hägringen (Miraggio, 1959) una specie di «sinfonia di una città» dedicato a Stoccolma. I paesi nordici si affacciano con vari titoli come Avskedet, diretto da Tuija-Maija Niskanen, sommesso dramma di rara intensità visiva all’interno di una famiglia dell’alta borghesia di Helsinki alla vigilia della seconda guerra mondiale, in cui Valerie scopre la propria omosessualità, film prodotto da Ingmar Bergman e popolato da attori e personale bergmaniano.

Ci sono poi due «ultimi film di» ovvero Crazy to Marry con Fatty Arbuckle, comico del muto americano travolto subito dopo dallo scandalo di un festino sesso e droga in cui era morta una ragazza, e il film brasiliano Ja que nimguém me tira para dancar, con Leila Deniz, oppositrice del regime militare brasiliano, morta in un incidente al ritorno da un festival in cui aveva vinto il premio come migliore attrice proprio per questo film.
Una ricca retrospettiva è dedicata finalmente a Hugo Fregonese, regista cosmopolita, argentino di origini trevisane, dalla variegata filmografia.

«La scoperta» del festival potrebbe essere Smog (Franco Rossi, 1962) con Enrico Maria Salerno e Renato Salvatori, sullo spaesamento di un avvocato italiano a Los Angeles, perso nella metropoli più avanzata del tempo, con piscine su vista panoramica e case sferiche trasparenti, scritto in California dal regista e da Gianluca Giagni con l’assistenza di Pier Maria Pasinetti, giornalista veneziano che insegnava a UCLA, fratello dello storico del cinema. Un bianco e nero che di Los Angeles racconta lo smog, non i cieli azzurri accarezzati dalle palme, con la curiosità del provinciale in gita e uno spleen più antonionano di Antonioni.

E poi naturalmente ci sono i film muti accompagnati dal vivo da pianisti e strumentisti diversi, dai corti del 1902 alla rassegna «100 anni fa», dedicata al 1922, che permette di vedere Kid Boots un musical muto con Eddie Cantor e Clara Bow, Three Stages con Buster Keaton, Die Gezeichneten (Gli stigmatizzati) di Dryer, atto d’accusa contro l’antisemitismo,
Tra gli altri muti Tu m’appartiens un film francese-internazionale, dominato da una regale Francesca Bertini, accanto a Rudolf Klein-Rogge (il dottor Mabuse di Lang), e poi la famosa Salomè art deco della Navimova, Foolish Wives e Blind Hubands (accoppiata perfetta) di Stroheim, l’attesissimo verista-sperimentale Ménilmontant di Kirsanoff, che racconta il destino di due orfanelle a Parigi, in cui un uomo abbandona una delle due con un figlio e spinge l’altra alla prostituzione. Freschi dal palcoscenico internazionale di «Women and the Silent Screen», convegno sulle figure femminili nel cinema muto appena svoltosi a New York, i corti con le scatenate regine mascherate dei serial, come la Protea di Victorin-Hippolyte Jasset e la misteriosa Chrysia, la Cunegonde della Lux.

Meriterebbe una riflessione il fatto che il cinema avventuroso seriale nasca al femminile, con fanciulle che si arrampicano su treni in corsa o si calano con una corda da veri palazzi a più piani, magari per spiare dei cospiratori e farli catturare: «femministe» in quanto dimostravano i poteri dei quali erano dotati i loro personaggi iperattivi, supereroine che comunque interpretavano i propri stunt. Al punto che Gene Gauntier sceneggiatrice e interprete di una delle prime serie Kalem su una donna-spia nella guerra civile americana, a un certo punto decise di far sposare la sua eroina per poter smettere quelle pericolose esibizioni