Cinema ritrovato, la memoria delle immagini nel presente del nostro tempo
Cinema Wim Wenders e «Lampi sull’acqua» che riuscirà l’11 luglio, la Palestina e i migranti di Tewfik Saleh. Tra restauri e riscoperte, il festival costruisce e inventa nuovi sguardi
Cinema Wim Wenders e «Lampi sull’acqua» che riuscirà l’11 luglio, la Palestina e i migranti di Tewfik Saleh. Tra restauri e riscoperte, il festival costruisce e inventa nuovi sguardi
«All’inizio doveva essere un film su un mio amico, lo avevamo pensato come un lavoro di finzione poi si è trasformato in un documentario, e in questo senso esprime pienamente il mio modo di lavorare». È così che Wim Wenders racconta Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (1980) il film con Nicholas Ray girato nei mesi prima della morte del regista di Gioventù Bruciata e di Johnny Guitar, che per Wenders rappresenta un riferimento fondante della propria poetica cinematografica. Lampi sull’acqua, che è stato restaurato dalla Wenders Foundation, tornerà in dvd e in streaming l’11 luglio grazie a Cg Entertainment, e in ottobre gli farà seguito in distribuzione con la Cineteca di Bologna Il cielo sopra Berlino (1987), che Wenders definisce il film del suo «ritorno a casa» dopo otto anni passati in America – «Sognavo anche in inglese, sentivo il bisogno di riscoprire la mia lingua e il mio Paese, ero pronto dopo questa distanza anche a confrontarmi con temi che fino allora avevo evitato».
«LIGHTNING OVER WATER» era uscito all’epoca anche in Italia, in quell’occasione Enrico Ghezzi aveva organizzato una conversazione tra Wenders e Bertolucci sul film (si trova su Rai teche, è molto bella, dice tantissimo sul cinema) nella quale Wenders raccontava come lo aveva cambiato dopo averlo presentato al festival di Cannes, perché durante la proiezione gli era sembrato che qualcosa non funzionasse; dunque ci aveva lavorato ancora sei mesi tornando in America e aveva deciso di inserire la prima persona nella narrazione- come lo vediamo ora. Il giovane regista arriva da Los Angeles dove sta girando Hammett per fare qualcosa col suo adorato amico Nick. Nel loft di Ray ci sono Susan Ray, la sua giovane compagna, che ogni mattina fa yoga, e molti amici, lui sta male, tossisce nel microfono sempre più forte e si lamenta, fuma, si veste, gioca a backgammon con Wenders, fa lezione mostrando ai giovani allievi la scena con Robert Mitchum che torna a casa in The Lusty Men (Il temerario, 1952), lavora a We Can’t Go Home Again (lo abbiamo visto alla Mostra di Venezia nel 2011).
Si parla di cinema, senza rimpianti o rancori per quella Hollywood che lo aveva allontanato, Ray resiste, fa fronte alla stanchezza, agli improvvisi peggioramenti davanti alla macchina da presa che lo segue e ne svela il volto sempre più scavato. Prova a inventare una storia che mette in scena sé stesso con Wim, un personaggio che è lui e non è lui al tempo stesso, intanto alle immagini in 35 mm di quel set intimo si sovrappongono quelle in video, forse non sempre la voce fuori campo di Wenders che «spiega» l’equilibrio tra realtà e messinscena funziona, però la presenza di Ray è più forte fino al finale di vita al lavoro nonostante la morte nel battito di palpebre tra un «cut» e un «continua» (a filmare) che è già lì nel suo desiderio di navigare il fiume con una barca dopo la fine in quello che Bertolucci scrivendo del film (Nick’s Movie, Ubulibri, 1982) chiamava citando Proust «l’immense frivolité des mourants».
E C’È QUI, in questo legame profondo tra Wenders e Ray senza il quale un film così – nonostante appunto la distanza narrativa che viene cercata da entrambe le parti – non sarebbe stato possibile, quel legame col cinema del regista tedesco che in questi giorni al Cinema ritrovato è apparso spesso in sala a presentare Targets (1968) di Peter Bogdanovich e un Ozu quasi invisibile (non lo aveva mai visto nemmeno lui prima), Hijonsen No Onna (La donna della retata) del 1933, altro riferimento centrale per Wenders il regista giapponese che torna anche nel suo nuovo film, Perfect Days – presentato allo scorso festival di Cannes, nelle nostre sale probabilmente in autunno – omaggio esplicito a Ozu come era già Tokyo-Ga (1985).
La donna della retata è un film molto diverso da quelli dell’Ozu a venire che qui utilizza travelling, inquadrature dall’alto, velocità di ritmo, campo e controcampo dichiarando una sua ammirazione per il gangster movie americano (lo stesso Ozu firma la sceneggiatura con lo pseudonimo di James Maki) – nel ruolo della ragazza del titolo c’è Kinuyo Tanaka, magnifica gangster in cerca all’improvviso di una «redenzione».
Ma la scoperta (o la riscoperta) è la caratteristica del Cinema ritrovato che in questi giorni riempie una Bologna assaltata dai turisti di una cinefilia giovane e meno giovane in coda tra una sala e l’altra. L’offerta è enorme, la scelta obbligata anche perché il programma ha poche repliche (sarebbe bello poter vedere ogni cosa ma è impossibile ovviamente). Capita così di guardare su grande schermo Cortile Cascino (1962) di Michael Roemer – a cui è stato dedicato un piccolo omaggio – con la presentazione di Goffredo Fofi che lì, nella baraccopoli di Palermo la cui quotidianità è testimoniata dal film, ha vissuto un anno, ragazzo di diciotto anni andato a insegnare e a lavorare seguendo Danilo Dolci con quei bambini e adulti ammassati in baracche fatiscenti, tra miseria, fame, malattie, disoccupazione, mafia, indifferenza.
Ho messo l’accento sull’idea di fuga che oggi caratterizza il Medio Oriente. Non esiste una salvezza individuale da una tragedia collettiva Tewfik SalehO di vedere la copia restaurata in un magnifico bianco e nero di The Dopes (Gli ingannati, 1972), uno dei migliori film del cinema arabo, tra i nove titoli che compongono la filmografia del regista egiziano Tewfik Saleh, il più politicizzato dell’onda nasseriana (era nato a Alessandria d’Egitto nel 1926), dal romanzo Uomini sotto al sole dello scrittore palestinese Ghassan Kanafary, militante del Fronte di liberazione della Palestina assassinato a Beirut nel 1972 dal Mossad. Gli ingannati sono tre migranti palestinesi di diverse generazioni che cercano di attraversare clandestinamente il deserto per arrivare in Kuwait in cerca di lavoro e di soldi contro le umiliazioni subite: cacciati dalle loro case dagli israeliani nella Nakba del 1948, rinchiusi nei campi profughi, degradati da miseria, aiuti umanitari, dagli altri arabi. Il «traghettatore» anche lui palestinese gli offre di nascondersi nella cisterna del suo camion, citazione esplicita di Il salario della paura, che il sole rende così rovente da non potere sopravvivervi più di sei/sette minuti. Ma la burocrazia e la stupidità dei kuwaitiani al posto di frontiera inceppa la corsa nella (quasi) indifferenza di chi li trasporta – come oggi continua a accadere alle migliaia di migranti che muoiono in mare.
SALEH lavora annullando i bordi di finzione e documentario nel respiro della storia; utilizza gli archivi – le immagini dell’esilio e dei campi dei rifugiati – si muove tra il cielo e quella terra, la Palestina, che come dice uno dei personaggi ha «lo stesso profumo dei capelli di mia moglie quando esce da un bagno freddo». «Ho cambiato il romanzo mettendo l’accento sull’idea di fuga che in questo momento caratterizza il Medio Oriente. Tre personaggi di tre diverse generazioni che rappresentano i tre fasi dello stesso problema collettivo decidono di fuggire dalla loro situazione alla ricerca di quella che ciascuno considera la propria salvezza individuale. Ma la fine è molto diversa dalle loro aspettative, non esiste una salvezza individuale da una tragedia collettiva» leggiamo in una intervista al regista riportata sul catalogo del festival. E questo film, che andrebbe fatto circolare oggi più che mai per il suo essere memoria storica e attualità, che si fanno in ogni inquadratura scelta formale e dunque politica, è per questo folgorante.
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