Cinema, film e monografie
Recensioni A CURA DI DIONISI E DE PASCALIS PIACERE, ETTORE SCOLA SABINAE Come si sceneggia a quattro mani? Scola e Maccari, che di sceneggiature per conto terzi ne hanno scritte più […]
Recensioni A CURA DI DIONISI E DE PASCALIS PIACERE, ETTORE SCOLA SABINAE Come si sceneggia a quattro mani? Scola e Maccari, che di sceneggiature per conto terzi ne hanno scritte più […]
A CURA DI DIONISI E DE PASCALIS
PIACERE, ETTORE SCOLA
SABINAE
Come si sceneggia a quattro mani? Scola e Maccari, che di sceneggiature per conto terzi ne hanno scritte più di cinquanta, si vedevano la mattina, si mettevano uno di fronte all’altro ognuno con la propria macchina da scrivere, e poi si scambiavano i fogli. Così sono esplosi i deliranti sproloqui di Nando Moriconi e l’irresistibile dettatura della lettera dei fratelli Caponi, ma anche un decennio e più di cinema popolare in cui tra musicarelli e barzellette filmate si avvia la commedia all’italiana, anche quella maggiore da “Il sorpasso” a “Io la conoscevo bene”. Un vivacissimo crogiuolo dove filtrano le sgangherate suggestioni dell’avanspettacolo e gli umori beffardi dei giornali umoristici. Quando passa dietro alla macchina da presa, Scola è il tipico regista-sceneggiatore che si impadronisce progressivamente del territorio insidioso del set, familiarizza un po’ alla volta coi corpi degli attori e i tempi del racconto. Sempre riconoscendo che l’imprinting fondamentale gli era venuto dall’apprendistato giovanile del “Marc’Aurelio”, imprevedibile scuola di sceneggiatura e di regia dove si impara a mettere a fuoco l’inquadratura e la battuta (pp. 302, euro 28,00).
PIERO SPILA
IL CINEMA E QUALCHE FILM
FALSOPIANO
Attenzione al sottotitolo: Alfabeto critico per nuovi spettatori. Sono molte le cose che il nuovo spettatore può imparare da questo libro, a cominciare dal rapporto tra critica e cinefilia, piacere del testo e organizzazione culturale. Scritti per l’occasione o riproposti da testate d’epoca, le voci dell’alfabetiere non attraversano solo le vicende del cinema ma il percorso di una generazione da “Cinema&Film” a “Cinecritica”. Si apprezzano il gusto per i grandi autori e per le loro opere decisive – da Murnau a Stroheim, da Buñuel a Dreyer, da Rossellini a Bertolucci – e l’attenzione per gli aspetti che sembrano marginali ma rubano la scena come il progetto irrealizzato del “Capitale” di Ejzenštejn, la lettera di Togliatti pro “Gattopardo”, la disperazione di George Sanders sul set di “Viaggio in Italia” mentre Rossellini e Brancati scrivono i dialoghi a ridosso del ciak, l’incontro con Roman Jakobson che a via Veneto discetta tranquillamente su metafora e metonimia, il ritrattino dal vivo di Kenneth Anger, intravisto a Salsomaggiore subito dopo la scoperta di “Hollywood Babilonia” e delle prodigiose esperienze dell’Underground (pp. 240, euro 20,00).
A CURA DI DE GAETANO E CERAOLO
CINEMA, PENSIERO, VITA
PELLEGRINI
Buone notizie sul fronte delle teorie del cinema. Il panorama si è venuto modificando – terremotato – nell’ultimo decennio. Certo, è stato fondamentale l’intreccio con filosofia, narratologia, psicoanalisi, studi visuali. Ma va a Gilles Deleuze il merito di aver ridisegnato il cinema come espressione totale della realtà, nella sua attualità e virtualità, a cui si ispirano anche queste splendide conversazioni con “Fata Morgana”. Mentre la dittatura semiologica ha perso l’aura, stanno venendo in primo piano spunti e riflessioni che l’aristarchiana “Storia delle teoriche del film” non esitava a sottolineare in rosso e blu. Sono soprattutto gli scritti dei primi decenni del Novecento che ripropongono il senso di stupore dinanzi allo scandaloso fenomeno del cinema, attivando un’esperienza con cui oggi occorre fare i conti. Nessuna sorpresa se ci si richiama a Papini, a Müsterberg, a Lindsay, a Freeburg. Il caso più clamoroso è quello di Jean Epstein, da cui abbiamo reimparato l’intelligenza della macchina, l’inesauribile valore conoscitivo del mezzo: “Il cinema, che rivela un universo fluido e metalogico, è pericoloso perché attinge alle zone più profonde e alla parte più umana dell’uomo, al meglio e al peggio dei poteri segreti dell’anima” (pp. 380, euro 25,00).
GIULIO LARONI
IL CINEMA SECONDO CORMAN
BIBLION
Grande navigatore nelle galassie del B movie, il novantunenne maestro di Detroit non gioca più con le sigle – dalla Roger Corman Productions all’American International Pictures a cui si associa, dalla New World Picture, che fa debuttare Coppola, Scorsese, Bogdanovich, Demme e distribuisce in Usa i film di Bergman e di Fellini, alla New Horizon Pictures Corporation degli anni ottanta – ma è tuttora lucidissimo e spiritoso. Come dimenticare il ciclo ispirato a Edgar Allan Poe? Strepitose incursione nell’inconscio dai colori sgargianti, dove sofisticati movimenti di macchina si alternano a esplicite strizzate d’occhio alla volgarità di massa, “I vivi e i morti”, “Il pozzo e il pendolo”, “Sepolto vivo”, “I racconti del terrore”, “La maschera della morte rossa”, “La tomba di Ligeia”, segnano in modo indelebile l’immaginario, e i sonni, degli spettatori dei sessanta. Anche grazie alla debordante presenza di Vincent Price, sopracciglia arcuate, voce nasale, luccichii sinistri nello sguardo, un festival permanente di sottigliezze recitative e di istrionici affondi che culminano nel “Barilotto di Amontillado”, dove la sua raffinata sapienza enologica duetta con l’onnivora ingordigia di Peter Lorre che tracanna un bicchiere dietro l’altro fino a stramazzare a terra ubriaco (pp. 165, euro 15,00).
A CURA DI LASAGNA, MANCINO, ZANELLO
HELP! IL CINEMA DI RICHARD LESTER
IL FOGLIO
Quando “Non tutti ce l’hanno” – indimenticabili le corse per le strade della città del letto d’ottone con Rita Tushingham e i suoi due coinquilini – vince nel ‘65 la Palma d’oro a Cannes, il fascino trasgressivo della Swinging London s’impone in tutto il mondo. Ma l’americano Richard Lester era in Gran Bretagna già da un decennio e, oltre agli spot pubblicitari, aveva lavorato a “Goon Show”, la demenziale serie televisiva che segna il sodalizio con Peter Sellers. Subito dopo sarà fatale l’incontro coi quattro giovanotti di Liverpool con cui gira “Tutti per uno”, contribuendo all’esplosione del fenomeno Beatles nel momento in cui racconta l’eccezionale quotidianità della band. Lo stile Lester è già definito nel suo ritmo spiazzante tra flash visivi da optical art e imprestiti dadaisti nel segno della decostruzione. Dopo “Dolci vizi al foro”, “Come ho vinto la guerra”, “I tre moschettieri”, “Robin e Marian”, un paio di “Superman”, “Il ritorno dei tre moschettieri”, non ha girato quasi più nulla. La prima monografia italiana sul regista ne ripropone una strepitosa mappa a più voci, dove il talento del grande sabotatore – che smonta dall’interno mitologie popolari e macchine narrative – anima in modo irripetibile il panorama del postmoderno (pp. 150, euro 15,00).
MAURIZIO NICHETTI
AUTOBIOGRAFIA INVOLONTARIA
BIETTI
Quante ore al giorno Maurizio ha passato alla moviola della Bruno Bozzetto Film di via Melchiorre Gioia a Milano quand’era agli inizi? Senza contare la scuola di mimo del Piccolo, i commercial per la Nolan, la Saila Menta, la Heineken, Lloyd Adriatico, gli story-board per il Signor Rossi, tutto comincia con il bozzettiano “Allegro non troppo”, a cui lavora con Guido Manuli, Giuseppe Laganà, Walter Cavazzuti, Giovanni Mulazzani, i migliori disegnatori della città. Solo quando impersona il cartoonist incaricato di disegnare in diretta le sequenza animate da abbinare ai brani di musica classica – sì, come in “Fantasia” di Disney – si accorge che muto è meglio, non ha bisogno di parlare per far ridere. Da lì verranno i suoi film d’autore-attore, da “Ratataplan” a “Domani si balla”, da “Ladri di saponette” a “Luna e l’altra”, in cui affiorano gli antichi amori per Charlie Chaplin, Buster Keaton, Harry Langdon, Stanlio e Ollio, ma anche Jacques Tati e Jerry Lewis. Senza contare il Queneau di “Icaro involato” e il Calvino del “Barone rampante”, Il De Sica-Zavattini di “Miracolo a Milano” e l’amatissimo Fortunato Depero che l’architetto Nichetti insegue dai tempi della sua tesi di laurea sul futurismo (pp. 220, euro 16,00).
JACQUES THORENS
IL BRADY
L’ORMA
Le storie delle sale cinematografiche sono spesso istruttive. Soprattutto se illuminano momenti e problemi della ricezione dello spettatore di fronte allo schermo, suggerendo preziose testimonianze sui rapporti tra il cinema di genere e il pubblico popolare. Il Brady, leggendaria sala di quartiere parigina al 39 del Boulevard de Strasbourg nel X arrondissement, rivive nel curioso libro solo a tratti divertente, tra il memoir e il romanzo, di chi dagli anni zero ne è stato proiezionista, cassiere e factotum. Qualche anno prima la sala era stata acquistata da Jean-Pierre Mocky, il singolare nizzardo di origine polacca che, dopo aver cominciato come attore (“Orfeo” di Cocteau, “I vinti” di Antonioni, “Gli sbandati” di Maselli), passa alla regia girando dagli anni sessanta in poi un debordante numero di film a basso costo. Sempre più emarginato, ha i suoi fans che ne condividono lo spirito libertario, ma è inviso alla distribuzione. Da qui la scelta di proiettarseli da sé nella sua sala. Ma Le Brady è l’ultima spiaggia di clochard e zonard che dormono sonni beati davanti agli azzardi calamitosi della Serie Z e agli scombinati capolavori del patron (pp. 340, euro 18,00).
GIAN LUIGI RONDI
TUTTO IL CINEMA IN 100 (E PIÙ) LETTERE
CSC/SABINAE
Se il primo volume dell’epistolario riproponeva il vivace rapporto con il cinema italiano, il secondo dedicato ai grandi stranieri è decisamente istituzionale, riguarda più l’organizzatore, l’instancabile inventore di festival, che il critico. Certo, la cinquantina di lettere di grandi firme sparate una dietro l’altra fa impressione, ma è difficile rimuovere le occasioni esterne da cui sono nate. Spiccano tra i classici le innumerevoli lettere e bigliettini di René Clair, ma sono molto fitti anche i rapporti con gli inquieti autori ungheresi, cecoslovacchi, jugoslavi, spesso di grande interesse. Sta a sé – l’ha sottolineato anche Felice Laudadio nella sua bella presentazione – il carteggio con Fritz Lang dove il grande regista spiega cos’è per lui il cinema, l’arte principale del nostro secolo: “I film non dovrebbero mirare semplicemente a raccontare una storia o un amore o sentimenti fra le persone ma dovrebbero denunciare i falsi valori comunemente accettati dal nostro sistema sociale. Una creazione cinematografica può avere reale valore soltanto se intenda contribuire alla costruzione di una società migliore e riesca a colpire proprio dove fa più male” (pp. 230, euro 28,00).
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