Immortality non è un videogioco sul cinema ma nel cinema, di lato e dentro i fotogrammi; e come ogni film è una visione di fantasmi, che questi siano gli attori viventi nell’immagine o coloro che sono dietro di questa, invisibili.

Risulta difficile inquadrare Immortality, definirlo entro i presunti ma rigidi confini che tendono a separare i media o meglio le arti, perché il videogioco, se guardato e non giocato, possiede una sua inestinguibile cinematograficità anche quando al cinema non ammicca e non si impadronisce in maniera evidente del suo linguaggio. Così l’ultima opera di Sam Barlow per PC, gratis per gli abbonati a Xbox Game Pass e per quelli di Netflix su Android e iOS, estremizza le corrispondenze visionarie tra cinema e videogioco, diventando un testo interattivo che non è rivoluzionario ma teorico e riassuntivo sul rapporto tre i due modelli dell’immagine mobile, un punto fermo e originale per discutere di affinità.

In Immortality chi gioca/monta le sequenze che comporranno il videogame è al lavoro come su una centralina di montaggio o una moviola, e procede per analogie cominciando con un solo segmento, un’intervista a Marissa Marcel, l’attrice attorno alla cui misteriosa scomparsa «pare» che dovremmo indagare. Evidenziando alcuni particolari delle immagini, procedendo quindi con una sorta di montaggio analogico, ecco rivelarsi altre decine di sequenze, una dopo l’altra, che si riferiranno ai tre film realizzati o incompiuti, comunque mai distribuiti, ai quali partecipò la donna.

Eppure, attenzione, tra i fotogrammi si nasconde qualcosa di sfuggente e inaspettato, fantasmi tra i fantasmi, attori degli attori. Possiamo accorgerci subito di queste presenze aliene alle pellicole, oppure solo alla fine, ma il risultato è una sorgente sconvolgente di brividi che muta in maniera drastica l’esperienza, che trasforma il ruolo di chi gioca e guarda, soprattutto la sua partecipazione all’immagine.
I tre film quasi completi nella loro messa in scena, ai quali si aggiungono memorabili filmati «dietro le quinte», sono materiale davvero affascinante per cinefili, realizzati con convinzione e ironia conoscendo la storia del cinema e l’oscillare delle sue lingue.

Il primo lungometraggio è Ambrosio, realizzato ne 1968 e ispirato vagamente al romanzo gotico The Monk di Matthew Lewis, girato in Italia ma ambientato in una Spagna del tardo rinascimento. Qui Marissa Marcel è protagonista dell’opera di corruzione di uno stimato e irreprensibile monaco, fino alla sua dannazione. Ci sono notturne atmosfere cormaniane, preziosismi e teatralità alla Zeffirelli, intensità fisica e metafisica alla Buñuel, nudi e rappresentazioni di rapporti sessuali tra perversione e passione. Notevole e più che credibile risulta l’interpretazione degli attori come d’altronde anche negli altri due «film», ed è riuscita la restituizione di una qualità della pellicola di quegli anni, l’idea di un cinema che si sta preparando a mutare e a distanziarsi dal classicismo.

La pellicola seguente è invece del 1970, con uno scarto questa volta deciso verso l’idea di un nuovo cinema americano e non tra John Cassavetes e Roman Polanski; si intitola Minsky e si svolge nella New York dell’avanguardia artistica, mettendo in atto un racconto giallo sull’indagine attorno alla morte di un celeberrimo pittore, un film che denucia la velleità di volere essere «underground» di un cinema che invece non lo sarebbe mai stato.

Il terzo film con Marissa è invece già degli anni ‘90, Two of Everything, la storia di una cantante e della sua sosia che rimanda ai thriller hitchcockiani di Brian De Palma; c’è un segmento assai rivelatore nel quale assistiamo ad un procedimento di «motion-capture», attraverso il quale si «digitalizzano» gli attori.

Saltare per analogie da una sequenza all’altra di questo e dell’altro film crea un percorso fluviale di immagini, stili e situazione che alimenta una forte curiosità, persino un’appassionata dipendenza intellettuale, che aumenterà oltremodo quando si comincia ad intuire ciò che le immagini celano nella loro grana, deliziando e inquietando il giocatore in un lavorio dello sguardo che può durare persino più di venti ore, se si desidera completare l’enigma di questo puzzle della visione.

Immortality potrebbe parere un film sull’inganno dell’immagine, sulla finzione del cinema e del videogioco, e sull’illusione da questi alimentata ma risulta invece un’indagine sulla verità di ciò che si vede, sulla profondità che c’è dietro qualcosa che in superficie è bidimensionale e immutabile. Oltre che a smuovere uno sguardo critico in chi «gioca», Sam Barlow e il suo straordinario cast di attori, spingono sempre di più il loro pubblico a diventare parte integrante di ciò che vede, ad annullare le distanze fino a inglobarlo totalmente nell’opera, a impadronirsene e farne parte integrante con una divertita crudeltà.
Quest’immedesimazione del giocatore nel personaggio giocato è più che comune, ovviamente, nel videogioco e non solo per la sua interattività, ma in Immortality si comincia con un distacco emozionale perché chi lo esperisce non è dentro al videogioco, protagonista dell’immagine, ma fuori; tuttavia questa non è, ralizzeremo, che un’illusione, perché qualcuno ci sta guardando, si chiede chi siamo, mentre lo vediamo o non lo vediamo. Ecco più che sul vedere Immortality è forse un’opera sull’intravedere.

Metavideogioco e metacinema, Immortality è stato scritto da Barry Gifford le cui opere furono fondamento per Cuore Selvaggio e Strade Perdute di David Lynch e vi è evidente il suo apporto per il trascorrere sconvolgente, non onirico ma concreto, tra i generi e i toni, per le inprevedibili derive horror o favolose che si inseriscono nella trama del vero e del quotidiano, per poi ritrarsi e tornare in un bizzarro moto ondoso. Le invezioni di Barry Gifford si rivelano affini alle poetiche di Sam Barlow così come per quelle di David Lynch, stabilendo una dialettica che risulta naturale, una contaminazione non artificiosa.