«Cinema e donne», opportunità di genere
Festival Alla storica manifestazione arrivata alla 39esima edizione con una fitta trama intessuta negli anni da Maresa d’Arcangelo e Paola Paoli del Laboratorio immagine donna, si possono cogliere stimoli di riflessione e incontri
Festival Alla storica manifestazione arrivata alla 39esima edizione con una fitta trama intessuta negli anni da Maresa d’Arcangelo e Paola Paoli del Laboratorio immagine donna, si possono cogliere stimoli di riflessione e incontri
Il festival «Cinema e donne» di Firenze (8-12 novembre) si chiude con una notizia che sembra rompere un varco nel tetto di cristallo: i decreti della nuova legge sul cinema contemplano punteggi che favoriscono le opportunità di genere per sviluppo di sceneggiature, regia, esordi e opere seconde. Andranno esaminate bene le varie disposizioni, ma certo rappresenta una svolta interessante anche se in Europa la Svezia ci guarda anche in questo caso dall’alto della sua superiorità, visto che la direttrice dello Swedish Film Center senza bisogno di leggi e commi, ha stabilito semplicemente che nel paese la produzione cinematografica per il 50 % deve essere femminile, cioè avere un punto di vista che possa contrapporsi al maschile, la quasi totalità dei film in circolazione. Le statistiche sono lampanti: solo in Italia su 100 registi solo 7 sono donne anche se risultano in parità alle scuole di cinema.
Allo storico festival arrivato alla trentanovesima edizione con una fitta trama intessuta negli anni da Maresa d’Arcangelo e Paola Paoli del Laboratorio immagine donna si possono cogliere stimoli di riflessione, incontri sorprendenti, riletture come le personali di Coline Serreau (vedi Alias della scorsa settimana), o di Dominique Cabréra di cui recentemente è stato distribuito il magnifico Corniche Kennedy, sconosciuti i lavori su memoria e sradicamento. C’è stato il ritorno di Gabriella Rosaleva, possente come l’avevamo lasciata ai tempi di Caterina Ross con Viaggio a Stoccolma (sceneggiatura di Alessandra Pigliaru), il viaggio di Grazia Deledda verso la Svezia per ricevere il Nobel, quindici minuti di puro percorso onirico.
Ha creato sorpresa rivedere Io sono mia del ’78 di Sofia Scandurra, il primo film che fu tutto realizzato da maestranze femminili, forse più incisivo oggi di quanto per le femministe fu all’epoca perché rivela lo stato di regressione della nostra società attuale, tratto dal romanzo di Dacia Maraini Donne in guerra, interpretato dai giovanissimi Sandrelli, Placido e una stregonesca Schneider, oltre a Paco Rabal (il film era coprodotto con la Spagna). Un film che stroncò la carriera alla Scandurra perché nessuno volle più produrre film «con quella femminista» come racconta nell’ultima intervista, girata da Silvia Lelli, sua allieva alla scuola di cinema.
Ha vinto il premio del festival la giovane portoghese Margarida Leitão con Gipsofila, che con la sua Canon riprende all’interno dello spazio metaforico di un affetto profondo, il lindo appartamento della nonna, il loro dialogo che non ha bisogno di parole, un percorso labirintico fatto di consuetudini, presenze e anche ironia in una luce che tende decisamente al tramonto. Nel vastissimo programma premiate anche le registe e produttrici marocchine Farida Benlyazid con i canti delle donne amazigh (berbere) e Izza Genini testimone della cultura arabo giudaica.
E non si dimentica facilmente Punishment Island di Laura Cini, partita in Uganda alla ricerca di un’isola raccontata come leggenda, ma che si rivelerà essere reale, attraverso l’incontro con le ultime sopravvissute, luogo dove mandare a morire le donne gravide senza marito.
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