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Cinema a Sarajevo, ombre lunghe di guerra

Cinema a Sarajevo, ombre lunghe di guerra

Festival Edin Forto, Primo Ministro del Cantone di Sarajevo, racconta come nacque l'idea del Sarajevo Film Fest, anche quest'anno visitato da attori e registi di tutto il mondo

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 agosto 2022

Mi trovo in un caffè vicino al Teatro Nazionale di Sarajevo. Il 28° Sarajevo Film Festival è appena iniziato. Mads Mikkelsen, Jesse Eisenberg e Ruben Östlund (ancora sorridente dopo il suo trionfo a Cannes con Triangle of Sadness) sono qui per accettare premi, mostrare i loro film e dare masterclass. E ci sono tanti film, tante première provenienti dalle regioni del sud-est Europa, tanti film dall’Ucraina, e altri film accolti da altri festival. C’è anche il tappeto rosso, c’è il bagno di folla, i Vip e le feste con i deejay. Come ogni altro festival del cinema, forse. Ma è incredibile che tutto questo abbia avuto inizio in una città assediata. Il primo festival si è svolto con le granate che esplodevano all’esterno del cinema e i cecchini così numerosi che la strada principale della città venne rinominata «Sniper Alley» o viale dei cecchini.

Ho preso un caffè con Edin Forto, Primo Ministro del Cantone di Sarajevo. Un giocatore di basket, magro, ha 50 anni ed è di ottimo umore. Parliamo in inglese. Ha studiato negli Stati Uniti.

«Durante la guerra qualcuno ha detto: perché non facciamo un festival del cinema? Eravamo pazzi. C’è un posto qui vicino – adesso è un supermercato o qualcosa del genere – ma all’epoca era un cinema. In un incrocio come questo qua. Immagina la gente che sta cercando di arrivarci per vedere un film. E il fuoco antiaereo partito da una collina colpisce l’incrocio e nessuno vuole muoversi. Vogliono attraversare la strada per entrare al cinema a vedere Tre Colori Blu di Kieslowski. Il film è in francese e senza sottotitoli. Le gente vuole vederlo comunque. Era davvero fantastico».

Nei primi anni novanta, Forto era uno studente, un cinefilo e un aspirante giornalista radio. «Avevamo un piccolo show alla radio che trattava del festival. Ma era pazzesco. Qualcuno muore, viene ucciso e bisogna andare avanti. La gente era sotto shock quando iniziavano a cadere le bombe. Poi dopo un po’ di tempo, ci si abituò. Dovevano uscire dalle cantine e dai rifugi e andare in cerca della vita. Dovevano andare a fare la spesa. Dovevano sopravvivere perché la guerra è durata tre anni e mezzo e io ero qua per i primi tre anni. Era strano. Tanti hanno notato questa fame di creatività, e di cultura. Boom! Ogni cantina che poteva avere accesso all’elettricità – cosa non facile – ospitava un gruppo di musica, o un equipe teatrale o un film».

I film arrivavano da collezionisti privati e più tardi anche dall’estero tramite una galleria che i difensori della città avevano scavato sotto la pista di atterraggio dell’aeroporto. «Mi ricordo che avevamo fatto alcuni elenchi dei CD che volevamo avere dall’estero. Io volevo i Sisters of Mercy ma tutti protestarono. ‘Vogliamo roba cool. Prendiamo i gruppi grunge.’ Fuori dal contesto del festival, c’erano i cinema che continuavano a trasmettere film, spesso in videocassetta. Film come Proposta indecente e Senza tregua, il film di John Woo con Jean Claude Van Damme erano scelte popolari. Forto li pubblicizzava alla radio come se la guerra non fosse esistita.
Con la ventottesima edizione, Sarajevo sente che il suo passato è molto presente in questo periodo. La guerra in Ucraina è un evento scatenante, un ‘triggering’ enorme per tutti qui. Edin dice: «Ho lasciato una riunione sulla situazione in Ucraina, sono entrato nel mio ufficio e ho pianto, una crisi di pianto. Ho notato che tutti noi che abbiamo vissuto la guerra abbiamo provato una forte reazione quando si è scatenata l’invasione dell’Ucraina. È stata una reazione enorme. C’era tanta paura e semplicemente una forte emozione».

Parlo anche con Jovan Marjanovic – il nuovo direttore del festival, che ha ereditato questa posizione dallo storico Mirsad Purivatra fondatore e direttore dello stesso per 25 anni. Marjanovic è molto felice di com’è andato il festival finora: «Mi sembra già un’edizione vintage.» Mi spiega anche come il festival stia cercando di dimostrare solidarietà con il popolo dell’ Ucraina. «Dunque, cosa possiamo fare per i cineasti dell’Ucraina? Cosa possiamo fare per i registi? Cosa possiamo fare per quelli che lavorano per i festival in Ucraina? Allora abbiamo pensato ad alcune cose specifiche, utili, che avremmo voluto qualcuno avesse fatto per noi negli anni Novanta. E la prima cosa è stata di abbracciare subito il cinema dell’Ucraina come un cinema della nostra regione, così i film possono partecipare alle gare e tutto ciò che facciamo per promuovere il cinema in questa parte del mondo include anche l’Ucraina. I soldi, gli incontri per l’industria, il programma per lo sviluppo dei talenti, Cinelink, ecc. tutte le sezioni per la regione da questo punto in poi includono anche l’Ucraina. Non solo per quest’anno, ma da adesso in poi. Così i registi ucraini potranno accedere a tutti i vantaggi. È una cosa concreta e specifica. E un’altra cosa di cui abbiamo tristemente anche troppa esperienza qui, è che quando un rifugiato deve lasciare la propria patria si trova a fare lavori per i quali non è adatto. I medici che potrebbero fare i medici devono fare le pulizie negli ospedali per esempio. È una storia comune. Allora abbiamo creato alcuni posti di lavoro per i nostri colleghi ucraini in modo che possano venire a fare quello che sanno fare. Fanno parte della nostra squadra».

I film che arrivano dall’Ucraina sono molto forti. Uscito anche a Venezia, Butterfly Vision parla di una prigioniera, Lila (Rita Burkovska) che torna dalla guerra nel 2017 in uno stato di trauma e incinta. La sua decisione di non terminare la gravidanza viene vista dal marito veterano come un tradimento. È una visione della guerra molto forte e la regista Maksym Nakonechnyi riesce a dare il senso del disturbo post traumatico da stress senza scene estreme. La gravidanza fa parte anche di Klondike, un film di Maryna Er Gorbach, in cui Oksana Cherkashina vive nella regione del Donbass con i russi e i separatisti che attaccano e bombardano proprio al momento della nascita. È un film aspro, nero e commovente e Er Gorbach ha vinto il premio come miglior regista. Il film vincitore come miglior film è stato A Safe Place, un film croato che parla di un uomo che prova a salvare il fratello da se stesso quando questo cade in una sindrome suicida. Il regista e scrittore del film Juraj Lerotic ha vinto per la sua interpretazione di quest’uomo disperato.

Quando finiamo il nostro caffè non posso non commentare che molti edifici mostrano ancora i segni della guerra non così lontana: fori di proiettili sui muri e le cosiddette rose di Sarajevo, i crateri lasciati dalle granate. Edin mi dice: «C’è sempre la contraddizione con cui adesso la Ucraina deve confrontarsi. Vogliamo mostrare che la vita va avanti, le famiglie, il lavoro, la cultura, tutto deve andare avanti. Ma allo stesso tempo, non è normale».

Parliamo spesso in questi giorni delle ‘culture wars’ – le guerre culturali. Ma queste sciocchezze infantili possono solo esistere in un paese senza la guerra vera. Edin ha imparato durante la sua vita sotto le bombe che la cultura ha un ruolo essenziale nella vita. «La cultura è un bisogno umano di base. I soldati tornano dalla prima linea, e vogliono la musica, un film, un libro. Vogliono qualcosa da tenere. La voglia di cultura diventa parte della resistenza, della lotta per sopravvivere. E penso che proprio in questo momento, nelle regioni e città più colpite dell’Ucraina, loro si sentano proprio così.

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