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Cindy Sherman, inediti travestimenti

Cindy Sherman, inediti travestimentiCindy Sherman, «United Film Still 84» 1978

La mostra Fino al 3 gennaio alla Fondation Louis Vuitton, «Cindy Sherman. Une rétrospective (1975-2020)»

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 5 dicembre 2020

Nell’aria non c’è lo strano, eccitante, profumo come di giardini del sud, né la melodia sacra italiana suonata da un armonium, ma le sale dalle pareti colorate delle gallerie 1, 2 e 4 della Fondation Louis Vuitton di Parigi sono attraversate da una tensione molto simile a quella descritta da Arthur Schnitzler in Doppio Sogno. Protagonista di questo ipotetico ballo in maschera «in una notte piena di segreti» è Cindy Sherman nei suoi travestimenti noti, insoliti e in parte inediti.

All’artista statunitense nata a Glen Ridge, New Jersey nel 1954 (vive e lavora a New York) è dedicata la mostra «Cindy Sherman. Une rétrospective (1975-2020)», curata da Marie-Laure Bernadac e Olivier Michelon con Ludovic Delalande (fino al 3 gennaio 2021), la sua prima grande esposizione in Francia dopo la personale a Jeu de Paume del 2006. Centosettanta opere riunite insieme, realizzate tra il 1975 e il 2020 che includono Untitled film stills (1977-80), Rear Screen Projections (1980), Fashion (1983-84), Disasters (1986-89), Sex pictures (1992), Headshots (2000-2002), Clowns (2003-2004), Society Portraits (2008). Tra queste anche i nuovi ritratti della serie Untitled (2019-2020) – alcuni presentati contemporaneamente in «viewing rooms», nella mostra on line della galleria newyorkese Metro Pictures – con figure femminili e androgine, da sole e in coppia (sempre l’artista che si duplica e moltiplica), su sfondi di paesaggi reali manipolati digitalmente e stampati in grande formato su metallo.

Anche il visitatore si ritrova a prendere parte al «ballo», riflesso com’è negli specchi, tra le costruzioni prospettiche dell’allestimento concepito dall’architetto Marco Palmieri insieme all’artista. Un continuo scambio di sguardi che provoca le emozioni più varie – fascino, curiosità, stupore, persino ribrezzo – nel corpo a corpo con i personaggi rivisitati da Sherman – dalla diva del cinema muto alla casalinga sull’orlo di una crisi di nervi, dal Bacchino malato al clown triste – nel ricreare questo suo mondo parallelo, in parte grottesco, che si estende nel tempo e nello spazio. Soprattutto quando lo sguardo della protagonista punta dritto a quello dell’osservatore, coinvolgendolo in un incontro-scontro che non può che essere immediato.

Sulle serie fotografiche del passato si è detto già molto, soprattutto in termine d’indagine del corpo femminile, del suo ruolo e della sua percezione nella società contemporanea con un’attenzione alla performance art e alla body art degli anni Settanta, punti di riferimento imprescindibili. Un attraversamento trasversale che prosegue anche nei lavori successivi fino al presente (veicolato anche attraverso instagram dove la fotografa concettuale conta già 331mila followers), manifestando la sua straordinaria versatilità nel continuare a intercettare, decodificare e decostruire gli stereotipi all’interno degli scenari di una cultura popolare e d’élite che comprende soprattutto l’arte figurativa (cinema incluso), la moda, la pubblicità. Fin dai tempi di Doll Clothes (1975) nell’operazione di «teatralizzazione del banale» sono evidenti i primi segnali di una poetica mirata a sradicare i luoghi comuni, incentrata proprio sul corpo dell’artista che diventa il palcoscenico delle sue ambigue metamorfosi. Il travestimento, portato talvolta ad un’esasperazione estrema che ne svela il trucco stesso, è legato ad un approccio metodico al lavoro e a una serialità che in Sherman si forma anche attraverso la sua visione di collezionista.

Dai mercatini delle pulci provengono, infatti, gli album fotografici quasi sempre anonimi che acquista a New York fin dagli anni Settanta. Una storia a sé è quella dell’album Casa Susanna, esposto in mostra, con le istantanee e i ritratti in posa, sia in bianco e nero che a colori, del signor Tito Valenti che nei weekend amava vestirsi da donna e farsi chiamare Susanna. Era eterosessuale e con sua moglie Marie che gestiva un negozio di parrucche, tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, aveva creato nella cittadina dove vivevano, a nord dell’area metropolitana di New York, un luogo intimo in cui i transessuali potessero darsi appuntamento e sentirsi liberi di essere se stessi. Un luogo d’incontri clandestini in cui la normalità era una dichiarazione d’intenti. Farsi fotografare a Jewett offriva una possibilità in più per gli ospiti di sentirsi parte di quella grande famiglia senza preconcetti.

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