Cilento, la «terra dell’osso» sta morendo
Il cilento muore ogni giorno. Strade chiuse, frane, smottamenti, terremoti e alluvioni. Il mio Cilento sta naufragando come le promesse mancate di politicanti di terz’ordine che promettono l’Eden ma poi […]
Il cilento muore ogni giorno. Strade chiuse, frane, smottamenti, terremoti e alluvioni. Il mio Cilento sta naufragando come le promesse mancate di politicanti di terz’ordine che promettono l’Eden ma poi […]
Il cilento muore ogni giorno. Strade chiuse, frane, smottamenti, terremoti e alluvioni. Il mio Cilento sta naufragando come le promesse mancate di politicanti di terz’ordine che promettono l’Eden ma poi lasciano la palude. Da anni sotto scacco dei soliti potentati locali, una sorta di feudalesimo barocco che ormai è penetrato nel dna degli stessi cilentani.
Le aree interne, diceva Manlio Rossi Doria, sono quelle che andrebbero maggiormente tutelate e protette, sono lo scheletro vero del paese. Definì alcune aree interne della Campania e dell’Appennino proprio «la terra dell’osso». La nostra «terra dell’osso» della provincia di Salerno è proprio l’area a Sud di Eboli. Dove Cristo si è fermato, ma non è più ripartito. Dove per ottenere i propri diritti bisogna urlare in uno spazio vuoto. Dove si chiudono gli ospedali, dove si cercano di insediare discariche, dove si chiudono gli uffici postali, dove i servizi essenziali di sopravvivenza vengono barattati come patate o funghi. Dove ancora oggi, anno del signore 2014 si muore sulle strade, bagnate dal sangue di chi le percorre alla ricerca della vita e di un futuro spezzato. Così è morta Emma giovane ambientalista che tornava da Pollica. Da un paese che pochi anni fa è stato bagnato dal sangue di un uomo perbene. Dove c’è un parco del cilento che dovrebbe maggiormente tutelare il territorio e non essere una gabbia in cui lottare per ottenere un posto da presidente.
Chi vive nei paesi interni si sente come un cittadino di serie B, lasciato solo, come se non fosse Campania, come se non fosse Italia. Ognuno è migrante nella propria terra, vivendo su un barcone come i naufraghi che dalla Libia partono per credere ancora che valga la pena di provare a vivere. Il nostro barcone è l’inedia, l’apatia in un mare di attese.
Io amo il cilento, amo il paese in cui sono nato, Roccadaspide, il mio posto dell’anima, il luogo della memoria e degli affetti molti dei quali non ci sono più. «Un paese abbarbicato sulla montagna come una rana gigante», lo avrebbe definito Maria Teresa di Lascia, poetessa e attivista radicale morta prematuramente e nata in un piccolo paesedella Puglia.
Ho una profonda rabbia per l’abbandono del territorio, per luoghi piccoli ma indifesi come bambini al freddo. Il cilento interno è ricco di storia, di luoghi ameni e meravigliosi, ma è in uno stato di totale abbandono. Ci si ricorda solo d’estate della bellezza dei luoghi, quando anche i padroni di questa regione vanno a bagnare le loro natiche nel mare trasparente di Acciaroli o di Castellabate.
Se girassero come ho girato io questi paesi ci si renderebbe conto della profonda dignità di contadini e gente di montagna che Nuto Revelli definisce in un suo bellissimo romanzo «I vinti». In quella terra c’è il sangue dei braccianti che hanno lottato per il loro pane, c’è il grido muto di generazioni di donne abbandonate dai mariti che con la valigia di cartone partivano per le fabbriche del nord. Si sente ancora e si respira in alcune case quell’odore, quel senso di sacrificio e di amore.
Peppino ormai ha più di 80 anni e ogni mattina con la sua vespa va a pascolare i propri animali in montagna. Schiena diritta, sigaretta sulle labbra come in un quadro impressionista, non si piega mai. Lavora e ama la sua terra. Il cilento è questo. Un vecchio che non si stanca mai. Perché la terra lo nutre. Quella stessa terra che gli ha dato la vita.
* regista
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