Degli Academica, il più sofferto scritto filosofico di Cicerone, non si è avuta in tempi recenti una traduzione italiana adatta a un pubblico non specialistico: questo fa della versione di Daniele Di Rienzo (BUR «classici greci e latini», testo latino a fronte, pp. 269, euro 12,00), un libro prezioso.

Gli Academica, apparsi due anni prima della morte violenta dell’oratore per mano dei sicari di Antonio, non sono un testo facile, né per il latinista, né per il lettore comune.

A renderne tutt’altro che agevole la fruizione intervengono due fattori: anzitutto le tracce delle due redazioni, gli Academica priora e gli Academica posteriora, ci giungono frammentarie, con tutto quel che ne deriva sul piano testuale; ancora più rilevante è la difficoltà intrinseca dei loro contenuti filosofici, e dei connessi problemi di lingua e stile.

È noto fino a che punto la vicenda biografica dell’ultimo Cicerone sia dominata da un’atmosfera cupa, dovuta a un incrocio luttuoso di circostanze storiche e vicende personali.

Nel 46 a.C., con Cesare che ha stroncato la resistenza dei pompeiani a Tapso, la guerra civile si avvia alla sua conclusione: la definitiva resa dei conti si sarebbe avuta l’anno dopo, a Munda, ma in ogni caso la formula politica della libertas repubblicana aveva di fatto cessato di esistere, dopo la morte, avvenuta il 12 aprile, di Catone Minore, che con il suicidio a Utica aveva scelto una forma estrema di asserzione di stoica coerenza e dissenso politico.

Sempre nel 46, Cicerone aveva tenuto una condotta non limpida, divorziando dalla sua prima moglie, Terenzia, per poi sposare, per mero interesse economico, la sua giovane pupilla Publilia.

L’anno successivo, il 45, fu segnato dalla perdita dell’amatissima figlia Tullia, morta di parto, a cui era seguita la fine del fallimentare e chiacchierato matrimonio con Publilia, durato appena sette mesi.

È in tale contesto che maturano, fra altre opere filosofiche, gli Academica preceduti di poco dall’Hortensius, il dialogo di avvio alla vita filosofica che avrebbe influenzato, in età tardo-antica, Agostino di Ippona.

Dell’antico risultato della loro complessa genesi è rimasto solo un ampio lacerto del libro intitolato a Varrone Reatino, seguito da altri trentasei frammenti, e dal libro intitolato a Lucullo.

Su un testo così tormentato dal punto di vista della costituzione critico-filologica e così complesso sul piano della lingua, Di Rienzo ha condotto un’operazione traduttiva di altissimo profilo.

Se anche a valle dell’evoluzione culturale, non sempre lineare, di questo primo quarto di ventunesimo secolo è pur sempre viva l’idea che tradurre è un po’ rivivere, oltre che far rivivere, l’opera letteraria, nel rendere i contenuti degli Academica Di Rienzo è riuscito in gran parte a ripercorrere in italiano l’arduo cammino che Cicerone stesso dové intraprendere nel restituire, in latino, i concetti filosofici greci, con le loro distinzioni e suddistinzioni, ponendo così in essere i fondamenti della terminologia filosofica delle moderne lingue europee.

Accompagnano la traduzione un corredo di note esplicative, una lucida introduzione sulle diverse fasi che l’opera attraversò nel suo comporsi nella mente dell’autore, e un limpido riassunto tematico delle parti superstiti, permettendo a chi l’approccia di superare gli ostacoli iniziali che altrimenti scoraggerebbero la lettura.

Ma perché avvicinarsi a un testo in apparenza così remoto dalla prassi del vivere quotidiano? La risposta è nella stessa personalità letteraria e politica dell’autore, e addirittura nelle pieghe della sua vicenda terrena.

Quando gli Academica furono composti, Roma viveva gli ultimi velenosi colpi di coda della seconda grande guerra civile. L’ascesa di Cesare, che nel 44 a.C. sarebbe culminata con la dittatura perpetua, immetteva lo Stato e il popolo romano in quella che, parafrasando la distopica neo-lingua tardo-moderna, potremmo definire l’epoca della post-libertas: una fase di asserzioni estreme (fino al suicidio per dissenso, come nel caso ricordato di Catone l’Uticense) e di pieni poteri ammantati di anomalie e ambiguità costituzionali e giuridiche, e coronati da apoteosi solo formalmente post mortem.

Cicerone coltiva negli Academica «l’arte del dubbio» (non è casuale il sotto-titolo posto in testa al libro) al preciso scopo di additare un’alternativa che non è solo dialettica e logica, ma antropologica ed esistenziale: uno spazio intellettuale in cui i criteri sono tanto più nitidi e privi di sbavature, quanto più profonda è al contempo la coscienza dell’incertezza delle umane conoscenze e nature.

Il medio platonismo, a cui Cicerone risale, è una filosofia di ragioni certe sul metodo, a illuminare di discorsi plausibili un mondo di paradossi e di incertezze, in cui i giudizi e le asserzioni vincolanti appartengono solo al regno ostentativo di un potere tanto più dispotico quanto più è senza limiti e dunque, in definitiva, senza legge e sanzione legittima.

Questa lezione gli Academica trasmettono a noi, uomini nell’epoca della post-verità, come antidoto agli slogan urlati dalle tribune unilaterali della post-democrazia: tanto più vitale è perciò leggerli, e fruirli in una traduzione limpida.