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Cicatrici e fili da sutura, su pagina

Cicatrici e fili da sutura, su pagina

Libri I racconti della scrittrice siriana Asmae Dachan, e il graphic novel di Roberto Grassilli

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 agosto 2022

È stagione di strappi e scioglimenti: le Camere, i matrimoni dei vip, i ghiacciai. Sarà il riscaldamento globale. Il calore che divampa, divora Roma, Londra e il Carso, deforma rotaie, pensieri e percezione. Focolai di covid e incendi nei boschi: la variante sospinta dal caldo per fortuna è meno letale di quella conosciuta nell’inverno del nostro scontento ma peggiora il senso di boccheggiamento.
Rimane da cucire: gli strappi nelle vele, le relazioni diplomatiche, i lembi di pelle. Chiamiamo ago la componente della bussola che dà la direzione. Il filo riconnette e orienta, anche quello di sutura, di cui le cicatrici sono l’esito, un promemoria dei corpo a corpo che abbiamo sostenuto da vincitori o da vinti. Lo abbiamo imparato tutti che in Giappone la saldatura dei pezzi rotti di un oggetto in ceramica viene valorizzata mescolando le lacche resinose a polveri di metalli preziosi, come oro e argento, da inserire tra le crepe, secondo la tecnica del kintsugi.

Farlo con le ferite del corpo e soprattutto dell’anima è faccenda molto più complicata. È uscito un libro per Erudita Editore, lo ha scritto Asmae Dachan, fotografa e scrittrice italo siriana, si intitola Cicatrice su Tela, è una storia d’amore e guerra col filo rosso dell’arte come lenitivo del dolore, espressione di se’ e rinascita. Il testo piano e molto disturbante ha il merito di sollevare la questione più insopportabile che l’umanità conosca, la violenza su minori, sulle donne, che ancora lacera Paesi dove la guerra continua a infuriare silenziosa e atroce, e persino – più spesso di quanto vorremmo sapere – le nostre tiepide case. Difficile immaginare che il racconto di simili strazi sia scaturito dalla penna garbata della reporter e poetessa Dachan, Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana, ambasciatrice di Pace dell’Università della Svizzera per la Pace e volontaria soccorritrice della Croce Rossa Italiana. Viene da chiedersi «ma come le è venuto in mente» e la risposta terribile è che non ha immaginato, semplicemente conosce il suo Paese d’origine e questo dove vive.

Nella Siria martoriata da undici anni di guerra, la stessa Siria della regina Zenobia che 1782 anni fa rese indipendente il suo Paese da Roma e lo resse da guerriera illuminata, migliaia di donne sole, vedove di guerra o divorziate, vivono coi loro figli nei widow camps, spesso di fatto prigioni dove subire violenza in cambio di minime concessioni di libertà.

«Non ci sono parole gentili per descrivere la guerra» spiega nel corso di un incontro Asmae Dachan, che spesso è chiamata con altre testimoni e narratrici a parlare della condizione delle donne nei conflitti e nei post conflitti che punteggiano il planisfero: Siria, Ucraina, Afghanistan, Etiopia, l’elenco è molto più lungo. Ha scelto la forma della narrativa per fare sì che ad avere contezza di quello che ancora accade non fosse solo un pubblico di addetti ai lavori, ma arrivasse col cavallo di Troia di un romanzo anche sentimentale.
La quotidianità del delitto, l’esposizione, quasi la dissezione di corpi e anime che vivono un orrore bellico, rendono arcaica e già vista ogni trama giornalistica e narrativa, perché la guerra oltre che il contrario di gentile e davvero antica come l’uomo e schiude più di un archetipo. Le parole dell’antichità e delle sue tragedie si attagliano ai racconti di ogni cronista di guerra: e Dachan che parla di cicatrici (anche quelle sulla carta, ché la stesura dei suoi libri è manufatta, in prima battuta) avvolta nel velo, pur vivida dentro il presente, aiuta ad annullare la connotazione temporale. Le Troiane, le Supplici di Euripide affiorano nella descrizione moderna dell’orrore, come non fosse passato un giorno. Non sono gentili, le parole tragiche, ma piene di grazia e clemenza: un terrore scuote il petto delle troiane, ma sento certa una sciagura, la paura mi vigila dall’alba, dicono di donne sorteggiate, violate, cadaveri trascinati nella polvere, il bambino Astianatte gettato vivo dalle mura altissime. E se non solleva o allevia, il mito conferma come in uno specchio, non giustifica ma spiega, e fa sentire meno soli, per questo è lì che si torna.

Con tono e spirito molto diverso, oltre che diverso genere narrativo, c’è un altro nuovo libro che guarda indietro e srotola fili che sono anche chirurgici , I gomitoli di Arianna, Sabir edizioni, è una graphic novel, l’ha disegnata e sceneggiata Roberto Grassilli su un racconto di Lia Celi che non è nuova a bazzicare disinvoltamente l’antico con leggiadria pungente. La storia è quella di un Teseo anziano, che torna nel labirinto con un nipote ragazzetto: l’ambientazione è un Tempo nuovo e indefinito, che risente di molti dei malesseri del nostro presente, a sottolineare la trasversalità dei miti fondativi, il loro essere sempre e dappertutto. Nonno Teseo è affetto da narcisismo senile, e torna a cercare nella grandiosa opera di Dedalo, divenuta attrazione per turisti con merchandising di gomitoli, il filo della memoria sfilacciata e della sua storia divenuta leggenda. E come in tutte le storie, specie quelle archetipiche, l’imperativo è cherchez la femme; Arianna, nella fattispecie, che dotò il giovane action man egomaniaco (Lia Celi non sbaglia una definizione) dello strumento per orientarsi e vincere il Minotauro e ottenere una rendita di posizione. La trama è nota: Teseo poi non solo pianta in Nasso la sua salvatrice dando vita a un modo di dire ancora in uso, ma è pure tanto pieno di non sé da non fare un colpo a casa per tranquillizzare il padre Egeo che, credendolo morto, si butta in mare, va detto, un filo troppo precipitosamente. E’ gustoso il vacillamento di Teseo che percepisce fuori tempo massimo d’esser stato meschino e carognetta, e anche immaginarlo in tempi moderni entrare baldanzoso nell’intrico fiducioso del suo gps e scoprire che non c’è campo né scampo quando devi davvero misurarti con un mostro, specie interiore, invariabilmente Minotauro cornuto e dallo zoccolo fesso. Un alter ego dell’eroe che poi rivive in Dioniso, partner definitivo della negletta Arianna, con più appeal del principino ateniese. Che con l’orrore le donne hanno dimestichezza lo ha dimostrato forse in modo più calzante di tutti Mary Shelley, nella storia di genitorialità più struggente di sempre, Frankenstein, dove per amore, anche di conoscenza, viene assemblata una creatura, messa insieme raccattando cocci, lavorando di cucitura; un essere tenuto su da cicatrici che non ha chiesto di nascere ma che qui ha da vivere, come ogni altro umanissimo mostro.

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