Cicatrici (come le porta il «vero uomo»)
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Matteo Renzi ha cominciato male, con la storia della «rottamazione» (che pure tanto consenso gli ha procurato tra i molti che non ne potevano più dell’andazzo del Pd prima di lui) e sta finendo peggio, con il tentativo di rimontare in sella grazie a un nuovo «racconto di sé» – non ce la faccio a scrivere storytelling – infarcito di parole altrettanto insidiose. Il Pd, abbiamo letto in questi giorni del Lingotto numero 2, «non è la casa dei reduci, ma degli eredi».
Già, ma in che cosa consiste l’eredità? Inoltre è finito il tempo dell’«io» e si è aperto quello del «noi» (ah, quante volte ho sentito ripetere questa frase nell’ultimo trentennio dalle parti del Pci, Pds, Ds e poi Pd!). C’è solo da chiedersi se quel «noi» non significhi una clonazione di tanti renzini, cioè più e peggio che semplici renziani.
Ma l’espressione che mi ha colpito maggiormente è quella detta a Federico Geremicca sulla Stampa di venerdì 10 marzo e ripetuta dal palco del Lingotto: «Ma sa che le dico? Che un uomo si giudica anche dal modo in cui porta le sue cicatrici».
Aveva affermato poco sopra: «…abbiamo fatto tante cose delle quali andare orgogliosi. Poi è arrivata la botta del referendum, della quale mi prendo tutta la responsabilità. Però le dico una cosa: gli effetti del No li misureremo nel corso degli anni…». Come ad avvertire: io ho sbagliato, ma certo non tanto quanto quelli (la stragrande maggioranza degli elettori) che hanno scelto diversamente da me.
Ho scoperto che esistono diversi tipi di cicatrici che si possono formare sul corpo umano, tra cui quelle dette «atrofiche», nelle quali «il tessuto che si forma è insufficiente e le ferite apparentemente rimarginate talvolta si riaprono». Direi che sia questo il caso, giacché non mi sembra di aver ascoltato dall’ex premier e segretario del Pd alcuna seria analisi degli errori commessi e delle ferite subite, da lui e dal suo partito. Cosa indispensabile per curare bene i traumi e ottenere cicatrizzazioni stabili. E soprattutto per non ripetere diabolicamente i propri errori.
Per esempio: come mai è stata esaltata una legge elettorale poi giudicata largamente incostituzionale dalla Consulta? Perché, dopo la crisi del patto del Nazareno, non è stato fatto nulla per ricostruire il necessario consenso verso la riforma costituzionale sia verso destra, sia verso sinistra, magari impegnandosi a modificare le parti manifestamente mal congegnate o anche semplicemente non condivise da tanta parte dello schieramento parlamentare?
Domande rimaste senza alcuna seria risposta.
L’ultimo Renzi ha anche insultato e irriso i suoi avversari interni e gli ex compagni usciti dal Pd, escludendo che si possano concepire alleanze con loro. Tutt’al più – raccontano le cronache – Pisapia e Boldrini potrebbero essere benignamente accolti nel listone del Pd, quasi come servi sciocchi.
Avevo guardato con curiosità (a parte il giudizio di fondo sul valore negativo e intrinsecamente autolesionista della parola «rottamazione») all’ascesa di Renzi e del suo gruppo, pensando che non dovessero essere sottovalutate le intenzioni e le ragioni di una iniziativa di persone giovani che avevano indicato una agenda politica per molti versi ben motivata.
In parte continuo a pensarlo, ma mi sembra ormai chiaro che il mestiere di leader politico e di statista non si addica a Renzi.
Avevano ragione gli amici di sinistra che da subito pensarono che la sua vittoria sarebbe stata per l’esanime sinistra italiana un ostacolo pericoloso, e non un’occasione di cambiamento e di rilancio.
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