Si calcola che a partire dal 1974 siano stati impiegati, a livello mondiale, 8,6 miliardi di chilogrammi di erbicidi a base di glifosato. E a partire dalla metà degli anni ’90, con l’introduzione delle coltivazioni geneticamente modificate, la quantità impiegata è aumentata di ben 15 volte. Il pianeta è stato inondato di glifosato. Comprendere con quali conseguenze per gli ecosistemi e la salute umana, è diventata una questione rilevante. L’Epa, Agenzia per l’ambiente degli Usa, ha dichiarato, nei giorni scorsi, che l’erbicida prodotto dalla Monsanto e commercializzato come Roundup «non costituisce un rischio per la salute pubblica se usato secondo le indicazioni e non è cancerogeno».

QUESTA PRESA di posizione non rappresenta una novità, perché già nel 2017 l’Agenzia aveva escluso una relazione tra l’uso della sostanza e l’insorgenza di tumori. La Monsanto, ora controllata dalla Bayer, esprime la sua soddisfazione, dovendo far fronte a 13 mila cause in cui si chiede il riconoscimento dei danni sulla salute provocati dal Roundup e dopo la condanna, in due distinti processi, a risarcire due agricoltori con 80 milioni di dollari. La posizione espressa dall’Agenzia per l’ambiente americana non viene condivisa da gran parte della comunità scientifica. L’Agenzia internazionale per la ricerca contro il cancro (Iarc), che rappresenta il più importante riferimento in questo ambito, sostiene dal marzo 2015, dopo aver analizzato i risultati di studi pubblici internazionali, che il glifosato è «probabilmente cancerogeno». Per questo giudizio ha dovuto subire ripetuti attacchi da parte della Monsanto, con un gruppo di senatori repubblicani che ha chiesto al governo di tagliare i fondi all’Agenzia.

LA QUESTIONE GLIFOSATO METTE in evidenza la forza che hanno le multinazionali nel condizionare la ricerca e le fortissime pressioni che vengono esercitate sugli organismi di controllo. Nel 2017, nel corso di un processo svoltosi in California, era emerso che la Monsanto aveva fortemente condizionato l’operato dell’Epa. In Europa abbiamo avuto il caso dell’Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) che nel suo rapporto alla Commissione europea ha utilizzato i dati e i documenti elaborati dalla Monsanto, per arrivare alla conclusione che il glifosato «non è cancerogeno né genotossico». Sulla base di questo rapporto, l’Unione europea ha rinnovato, nel novembre 2017, per altri 5 anni la licenza per l’uso del glifosato come principio attivo negli erbicidi. Le multinazionali dell’agro-industria fanno di tutto per condizionare la ricerca e i loro studi finiscono per essere il punto di riferimento per le istituzioni nelle decisioni in materia sanitaria. Sono le stesse industrie che producono i pesticidi a svolgere i test di sicurezza e partecipare alla progettazione dei metodi per la valutazione del rischio.

SONO POCHI GLI ISTITUTI DI RICERCA in grado di portare avanti studi liberi dai condizionamenti dell’industria agrochimica e rilevare gli effetti a breve e a lungo termine dei pesticidi. Uno di questi è sicuramente l’Istituto Ramazzini di Bologna. In collaborazione con altre Istituzioni e Università indipendenti di Europa e Stati Uniti, ha concluso la fase pilota di uno studio globale sul glifosato, per documentare quali conseguenze può avere sulla salute umana. I primi risultati della ricerca mostrano che gli erbicidi contenenti glifosato, anche quando vengono somministrati a dosi considerate «sicure» dall’Epa americana (1,75mg per kg di peso corporeo al giorno), «sono in grado di provocare alterazioni del microbioma intestinale, disturbi nello sviluppo riproduttivo, squilibri nel sistema endocrino, lesioni patologiche di organi bersaglio». Lo studio intrapreso dall’istituto non aveva l’obiettivo immediato di definire la cancerogenicità del controverso principio attivo, ma individuare alcuni effetti sulla salute che possono determinare, a lungo termine, patologie di vario tipo, comprese quelle oncologiche. Alcune sostanze non sono cancerogene in modo diretto, ma indirettamente. Gli squilibri ormonali dovuti alle interferenze endocrine di una sostanza sono tra le cause indirette nel determinare lo sviluppo di tumori. La ricerca, su una popolazione di ratti e con dosi compatibili con quelle che le persone ingeriscono nel loro ambiente, ha dimostrato che il glifosato è un interferente endocrino anche a dosi considerate sicure.

LA DOTTORESSA FIORELLA BELPOGGI, direttrice dell’area ricerca dell’Istituto, dichiara: «Dopo il nostro studio pilota ci sono ancora più domande sugli effetti dell’esposizione al glifosato e sul potenziale cancerogeno di questa sostanza. I risultati dei nostri studi consentiranno alle Istituzioni di disporre di dati solidi e indipendenti sui quali basare le analisi dei rischi per la salute umana».
Anche l’Istituto Ramazzini è finito sotto l’attacco della lobby del glifosato per la sua ricerca e i suoi ricercatori definiti «scienziati politicizzati». Ma in passato sono stati gli studi condotti dall’Istituto a contribuire alla scoperta del potenziale effetto cancerogeno di sostanze di largo impiego come benzene, formaldeide, cloruro di vinile, aspartame.

LA DIFFUSIONE PLANETARIA del glifosato e il ruolo strategico che esso svolge in agricoltura rendono necessario un nuovo approccio rispetto alla sicurezza alimentare. Pur essendo il glifosato presente in ogni ambiente e parte integrante della catena alimentare, esistono difficoltà di monitoraggio, perché deve essere rilevato un suo prodotto di degradazione (Ampa). Sono ancora pochi i laboratori in grado di stabilire la sua concentrazione negli alimenti, acque, tessuti, sangue, urine. Di positivo c’è la recente sentenza della Corte dell’Unione europea che ha abolito il divieto di accesso agli studi sulla tossicità e i possibili effetti cancerogeni del glifosato. Era stata l’EFSA a negare a quattro parlamentari europei la possibilità di prendere visione di documenti in suo possesso, con la motivazione che «la divulgazione delle informazioni avrebbe potuto arrecare un serio pregiudizio agli interessi commerciali e finanziari delle imprese». Una presa di posizione inaccettabile vista la funzione che l’Autorità svolge, preoccupata più degli interessi delle imprese che della salute dei cittadini.

ORA LA CORTE HA STABILITO che l’Efsa deve aprire i suoi archivi e consentire la visione di tutti i documenti, anche quelli non pubblicati, perché «l’interesse dei cittadini ad accedere alle informazioni non è solo quello di sapere cosa potrà essere rilasciato nell’ambiente, ma anche in che modo l’ambiente rischia di essere danneggiato». L’eurodeputata verde francese Michèle Rivasi così commenta la decisione: «È una sentenza storica, perché implica che l’industria deve essere trasparente e le autorità di controllo devono mettere al primo posto l’interesse pubblico».