Su Churchill tutto sembra essere stato detto, intanto da lui, in particolare nei sei volumi della Storia della seconda guerra mondiale, che gli fruttarono il Nobel per la letteratura, oltre a strepitose somme tanto in dollari quanto in sterline, signorilmente dilapidate come tutti gli altri moltissimi soldi guadagnati con il giornalismo e la letteratura, spesi in champagne Pol Roger e altri costosi Chablis, Claret, Bordeaux. Come disse alla moglie Clementine, l’alcol gli aveva dato molto più di quello che gli aveva preso, e non è difficile immaginare quanto lo avesse aiutato, insieme ai sigari Romeo y Julieta, a combattere una depressione che veniva da lontano, probabilmente dal padre Randolph amatissimo, ma che lo trattò sempre come un incapace, e dalla madre ancora più amata e ricordata, ma lontana e indifferente.

Entrambi i genitori vennero da lui colmati di omaggi letterari, il più toccante dei quali è forse l’esordio del primo discorso al Congresso degli Stati Uniti, il 26 dicembre 1941: «Non posso fare a meno di pensare che se mio padre fosse stato americano e mia madre britannica, invece dell’opposto, sarei potuto arrivare qui con i miei mezzi». Due libri recenti, Churchill La biografia di Andrew Roberts (traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana, Utet, pp. 1406, € 48,00) e Splendore e viltà di Erik Larson (traduzione di Raffaella Vitangeli, Neri Pozza, pp. 700, € 22,00) permettono di tornare alla vita dello statista britannico da due prospettive complementari. Estensivamente, nel caso di Roberts, che racconta l’intera vita di Churchill, dalla nascita nel castello di famiglia, Blenheim, più grande e sontuoso di Windsor e intitolato alla grande vittoria dell’eroe fondatore della famiglia, John Churchill, I duca di Marlborough, al fallimento di Gallipoli nel 1915 che gli costò la carica di Primo Lord dell’Ammiragliato e una lunghissima emarginazione politica; fino al momento apicale della sua vita, l’elezione come premier il 10 maggio 1940, nell’ora più buia. Poi la sconfitta elettorale nel 1945, il nuovo e malinconico premierato 1951-1955, e il lungo tramonto, tra giornate di pittura nella Francia meridionale e crociere con Onassis e Maria Callas.

Tra il leone e il bambino
Un singolare miscuglio di pregi strani e di difetti ancora più strani concorrono a definire la personalità di Churchill. L’infinita cultura storica, sviluppata dai tempi in cui era giovane ufficiale in India e con la convinzione plutarchiana che quella dovesse essere la preparazione alla politica. L’istinto oratorio con la predilezione posh per le parole di origine inglese, e più brevi possibile. Il gusto teatrale nel vestire, con uniformi, colbacchi, abiti elegantissimi o tute disegnate da lui stesso (siren suit, «abito da sirena»: ne regalò uno al re per il Natale 1941), in azzurro, verde bottiglia, bordeaux.

La passione scenografica, come nella foto famosa The Roaring Lyon, la mano con il palmo in basso sul fianco (un’abitudine che aveva ereditato dal padre) e gli occhi minacciosi che il fotografo Yousf Karsh gli aveva strappato il 31 dicembre 1941 in Canada con un semplice stratagemma, togliergli di bocca il sigaro per eccitare l’ira del leone e il disappunto del bambino. L’enorme memoria letteraria, che gli permetteva non solo di citare l’intera letteratura inglese, letta non si sa quando, ma di inventare finti eppure credibilissimi versi di Shakespeare o di Tennyson.

E poi il coraggio fisico sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale e nelle trincee della prima guerra mondiale. E prima ancora, quando aveva guidato una carica contro i dervisci nel 1900, fortunatamente munito della sua Mauser a 10 colpi invece della sciabola, o quando fuggì dalla prigionia in Sud Africa durante le guerre boere. All’altro capo, le mattinate passate a fumare e dettare dispacci dal letto o dalla vasca da bagno. Infantile, capace di mettersi a giocare con i trenini di suo nipote (senza il nipote). Fino alla mania per la biancheria di seta rosa, che faceva ridere Hitler, il quale non trovava peraltro niente da ridire alle uniformi di Göring. E crudele, come quando tenne sul filo per decenni, come delfino, Anthony Eden, che infine gli successe solo per andare incontro allo scacco di Suez nel 1956.

Poi l’innamoramento senile, che era prima di tutto venerazione, per la giovane regina Elisabetta, e la sera in cui, dopo le dimissioni dal suo ultimo premierato, la riceve al 10 di Downing Street indossando l’ordine della giarrettiera con la stessa devozione con cui Kutuzov si inginocchia davanti alle icone prima della battaglia di Borodino. Sino al funerale nel 1965 (ho fatto in tempo a vederne le immagini in televisione), con l’ode John Brown’s Body cantata su sua esplicita richiesta nella cattedrale di Westminster, e quell’amore per gli Stati Uniti che manifestava nei modi più vari, per esempio con il culto del generale Lee (ma nel 1955 fu dispiaciutissimo del fatto che l’aviazione canadese avesse smesso di cantare Rule, Britannia: per farlo contento, sceso dal treno che lo portava a Ottawa nella sua ultima visita di stato fu accolto da quel canto).

La lettura di Larson è invece intensiva: affronta il punto culminante della vita di Churchill e della storia europea del secolo scorso, il periodo che va dall’assunzione del premierato con il crollo della Francia sino all’ingresso in guerra degli Stati Uniti e la fine dell’isolamento britannico. Letterariamente migliore e costruito in maniera cubista, il libro di Larson ci racconta quasi venti mesi bene espressi dai versi di A un’ombra, 1940, in cui Borges prega per l’Inghilterra assediata e invoca l’ombra di De Quincey («mi senti, amico mio non visto, mi senti attraverso quelle cose insondabili che sono i mari e la morte?»).

Le tappe fondamentali
Di quel periodo abbiamo di solito una immagine stereotipata, il discorso del 4 giugno 1940 – «Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline, non ci arrenderemo mai» – poi la battaglia di Inghilterra. Quindi l’attenzione solitamente si sposta nel Nord Africa, poi sull’attacco alla Russia e la fine della morsa.

Il merito di Larson sta invece nel restare in Inghilterra, raccontando un Churchill stanziale, tra Londra, i Chequers (la residenza di campagna dei premier) e Ditchley Park, la casa di campagna di Ronald Tree dove passava i week end con famiglia, staff e ospiti quando la luna piena rendeva i Chequers troppo esposti ai bombardamenti.

Il Churchill ritratto da Larson è molto diverso dal globe trotter che fece più volte il giro del mondo, da Villa Tragara a Capri a Château Fontenac a Québec City, da Washington a Marrakesh, a Mosca, a Yalta a Alessandria, quando le sorti della guerra presero a girare per il verso giusto («questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio»). E soprattutto descrive una Londra bombardata mentre al Savoy, al Claridge, al Dorchester (l’hotel più recente e più sicuro grazie alle forti componente di cemento armato) continuavano i balli delle debuttanti.

Larson descrive un Churchill su di giri, che marcia intanto ai Chequers con il siren suit («il pagliaccetto») al ritmo di bande militari, accanto il suo Mannlicher con la baionetta inastata, eseguendo alla perfezione le manovre, lui che, quarant’anni prima, nella battaglia di Omdurman, aveva ucciso quattro dervisci con la sua automatica Mauser a dieci colpi. E, ancora, Churchill che scoppia in lacrime, in continuazione: nel 1906, camminando per i quartieri poveri di Manchester dice a un amico «Pensa come sarebbe vivere in una di queste strade, senza mai vedere qualcosa di bello, senza mai mangiare qualcosa di buono, senza mai dire qualcosa di intelligente».

Molti nel tempo si sono paragonati a Churchill, e ovviamente a sproposito, non solo perché mancavano loro le doti, ma perché soprattutto ineguagliabile è il fascino di quest’uomo che ha passato buona parte della sua vita nella sconfitta e nel non riconoscimento, e incontra il suo vero destino quando tutto sembra finito per lui.

Se Pétain fosse morto a sessantacinque anni sarebbe rimasto l’eroe di Verdun, se Churchill fosse morto a sessantacinque anni sarebbe stato per l’eternità lo sconfitto di Gallipoli. Nuovamente sconfitto in Francia, in Nord Africa, in Grecia, in Norvegia, a Singapore, e sconfitto anche nella vittoria, con le elezioni del luglio 1945 che decretarono la salita al potere dei laburisti di Attlee, era determinato a non arrendersi, confidando fino all’ultimo nell’intervento degli Stati Uniti, e con la consapevolezza che questo avrebbe determinato il declino dell’impero britannico. Che a decidere di questo destino sia stato un uomo dell’età vittoriana, disposto a porre l’interesse dell’umanità sopra alla salvezza dell’Impero, costituisce, io credo, il più grande merito storico e umano di Churchill.