«Chronorama», la fotografia come un affresco collettivo
Da «Chronorama», Palazzo Grassi: Adolf De Meyer, «Bambina seduta sul tavolino con il mappamondo», 1919 Foto Vogue /Condé Nast
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«Chronorama», la fotografia come un affresco collettivo

La mostra A Palazzo Grassi, Venezia, tesori fotografici del XX secolo, a cura di Matthieu Humery, fino al 7 gennaio 2024
Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 aprile 2023

La foto in bianco e nero che mostra l’interno dell’astronave del film 2001: Odissea nello spazio – scattata da William Klein nel 1968 – è la proiezione di un’avventura avveniristica. Proprio come lo era stata, nel 1909, la «seconda nascita» della rivista Vogue (fondata nel 1892, a New York, da Arthur Baldwin Turnure) quando venne acquistata dall’editore Condé Montrose Nast.

Proprietario di altre importanti testate americane, tra cui Vanity Fair, House & Garden, Mademoiselle e The New Yorker, egli ebbe un ruolo decisivo nel conferire a questa rivista femminile, che già all’inizio del 1910 aveva una tiratura di 30mila copie, quel suo stile inconfondibile. A partire, naturalmente, dalle copertine perfetta sintesi di un trend in cui bellezza, moda e costume sono connesse con arte, design, architettura.

Certamente, il passaggio dall’illustrazione alla fotografia, benché fossero coinvolti importanti illustratori come Helen Dryden e George Wolfe Plank, estroso interprete dell’Art Déco, segnò un ulteriore scatto di modernità. Dall’archivio Condé Nast provengono le oltre quattrocento opere, realizzate tra il 1910 e il 1979 (data in cui è cambiata la legge sul diritto d’autore) – per la maggior parte fotografie vintage in bianco e nero – scelte tra le 5mila entrate nella collezione Pinault e presentate nella mostra Chronorama. Tesori fotografici del XX secolo, a cura di Matthieu Humery, a Palazzo Grassi di Venezia (fino al 7 gennaio 2024).

Un percorso emozionante che attraversa la storia del secolo scorso proiettando la visione ricca di citazioni dei 185 autori nel cui sguardo la fotografia è oggetto e soggetto di un affresco collettivo. «Raccontare il tempo in cui si vive non è sempre facile. Chi è importante? Cosa è rilevante in questo momento? Cosa sta succedendo davvero? Le risposte possono dare adito a dibattiti infuocati. I direttori che hanno commissionato questi scatti – figure del calibro di Edna Woolman Chase, Frank Crowninshield, Grace Mirabella, Alexander Liberman, leggendario direttore editoriale di Condé Nast – hanno compiuto scelte fenomenali», scrive Anna Wintour nel catalogo.

Dell’eccezionalità delle immagini, per qualità estetica e contenuto, se ne ha piena consapevolezza sin dall’inizio dell’esposizione che occupa due piani dell’antico edificio, intervallate dalle opere di quattro artisti contemporanei, Tarrah Krajnak, Eric N. Mack, Giulia Andreani e Daniel Spivakov. A cominciare dalla foto appartenuta a Vanity Fair (ma non fu mai pubblicata) di Dr. Mary Walker, medico femminista statunitense che già dalla metà del XIX secolo (era nata nel 1832) si batté per riformare l’abbigliamento femminile.

Nello scatto, realizzato intorno nel 1911 da Paul Thompson, lei indossa il cilindro sul completo da uomo con la mantella di pelliccia e tiene in mano la bandiera americana ripiegata. Sul retro è indicato «La prima donna che ha indossato i pantaloni in pubblico»: veri pantaloni di taglio maschile non jupe-culottes alla Poiret! Nella carrellata di fotografie stupende si riconosce la firma del barone Adolphe de Meyer – «un grande snob», come lo definiva Cecil Beaton – primo fotografo professionista di Vogue con la sua passione per i Balletti Russi e una raffinatezza innata che trapela anche in una foto come la Bambina seduta sul tavolino accanto a un mappamondo (1919).

Se, poi, Dora Kallmus (aka Madame D’Ora) è autrice del ritratto del pittore giapponese Tsuguharu Foujita, Berenice Abbott realizza quello di James Joyce con la benda sull’occhio e George Hoyningen-Huene di una sorridente Joséphine Baker con le ciocche tirabaci. Gli stessi fotografi finiscono sulle pagine patinate come camei in un lungometraggio veramente speciale: ecco, allora, Lee Miller fotografata da Edward Steichen (1928); Henri Cartier-Bresson con la prima moglie Ratna Mohini nell’immagine di Irving Penn (1946) che fotografa anche Richard Avedon a New York (1978); Allan Arbus e Diane Arbus da Frances McLaughlin-Gill (1950), Cecil Beaton nell’Autoritratto al tavolo (1951) e David Bailey con John Swannell da Annette Green (1970). Dal cinema alla moda, dalla politica alla scienza, dalla letteratura alla danza, in un tempo che sembra sospeso come quello che circonda la modella che nuota (vestita da sera ma a piedi nudi) nella vasca per delfini in Florida – la foto del ’39 è di Toni Frissell – ogni immagine ci restituisce la memoria visiva di un’epoca in evoluzione.

I volti celebri sono innumerevoli, senza dubbio Marlene Dietrich fotografata da Edward Steichen ma anche Fred Astaire in smoking che balla (André De Dienes), proprio accanto a Charles Henri Ford in un costume disegnato da Salvador Dalì (Cecil Beaton) – Dalì torna anche nel ritratto di Penn con la moglie Gala del 1947 – Vivien Leigh (Charles E. Kerlee), il campione di pugilato Joe Luis (Lusha Nelson), la cantante e attrice afro-americana Ethel Waters (Horst P. Horst) e l’attrice sino-americana Anna May Wong (George F. Cannons e Edward Steichen).
È Steichen, nel 1930, a firmare anche quella splendida immagine in cui il volto della diva che sfidò i preconcetti hollywoodiani (Anna May Wong è la prima donna di origine asiatica a cui, lo scorso anno, è stato dedicato un quarto di dollaro americano nell’ambito dell’American Women Quarters Program), piegato su un lato e con gli occhi chiusi accanto ad un crisantemo, ricorda Kiki de Montparnasse con la maschera africana nella foto di Man Ray.

Tante cloche, perle e pellicce per arrivare al «glamour e grinta» (titolo del capitolo conclusivo del catalogo a firma di Philippe Garner): in questo rincorrersi di gesti teatrali e quotidiani troviamo Rex Herrison e Lilli Palmer sovrapposti agli occhi di un gatto siamese (Erwin Blumenfeld) o Coco Chanel sulle scale della sua casa in rue Cambon, Paris 1953 (Robert Doisneau), Josef Beuys nel primo piano di Gianfranco Gorgoni e Benedetta Barzini con il poncho di Valentino (Gian Paolo Barbieri).

Spesso uno sguardo intenso è associato alla sigaretta (per lo più accesa), protagonista della scena non meno della celebrità stessa. In Chronorama la sigaretta fa la sua comparsa tra le dita di Gordon Parks fotografato da Adelaide de Menil (1965), dell’editrice Katrina McCormik (Serge Balkin, 1944), di Jeanne Moreau (Dan Budnik, 1962), di Ruby Lynn Reyner (Jack Robinson, 1970), della moglie di William Wetmore (Edward Steichen, 1933) e della contessa de la Falaise con un bracciale Cartier (Horst P. Horst, 1934). David Hockney, invece, fuma il sigaro (Helmut Newton, 1975).

Oggigiorno non si fuma quasi più in pubblico e le scritte sui pacchetti mettono in guardia il consumatore sulla nocività del tabacco, ma la sigaretta accesa e la gestualità ad essa connessa conferiscono ancora più fascino a chi la avvicina alle labbra, la aspira con intensità o la tiene tra l’indice e il medio, come nei ritratti realizzati da Irving Penn a Luchino Visconti (1948) e Marcello Mastroianni (1962), anche quando il close-up inquadra le labbra con il rossetto rosso (Sigaretta e labbra, 1961) o solo i mozziconi (Cigarette n. 17, New York, 1972), ultima traccia dell’intensità del momento vissuto.

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