Christophe Cognet, le foto come gesto di resistenza nei campi di concentramento
Berlinale 71 Parla il regista di «From Where They Stood», nella selezione di Forum
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I pali lungo i quali un tempo correva il filo spinato rendono subito evidente dove ci troviamo: un ex campo di concentramento nazista – uno dei tanti (Dachau, Buchenwald, Auschiwitz-Birkenau…) visitati da Christophe Cognet per il suo From Where They Stood, in programma a Forum. Nella sua ricerca, il regista «segue» delle fotografie che immortalano i prigionieri e i campi stessi, scattate clandestinamente da alcuni deportati: dai ritratti a un gruppo di donne che stanno per venire uccise con lo Zyklon B. Mettendosi alla ricerca del punto di vista da cui sono state scattate le foto Cognet – accompagnato da storici e ricercatori – ricostruisce il faticoso processo necessario per immortalare l’esistenza nei campi: i pericoli, le condizioni per poter passare «inosservati», la stessa ora del giorno e la stagione in cui gli scatti sono stati realizzati, ricostruite minuziosamente sulla base delle ombre.
Qual è il processo di ricerca da cui è nato il film?
Lavoro sulle immagini realizzate all’interno dei campi da vent’anni, da quando ho incontrato il pittore francese Boris Taslitzky, che aveva fatto dei disegni mentre era prigioniero a Buchenwald: visitare il suo atelier per me è stata una rivelazione. Mi ha consentito di «inquadrare» le immagini d’archivio di Notte e nebbia di Resnais, che mi avevano lasciato sconvolto quando avevo 12 anni, e di cominciare questo cammino per comprendere le immagini realizzate dai deportati, che sono al centro del mio film precedente: Because I Was a Painter. È stato allora che ho scoperto anche le fotografie di From Where They Stood, che però non sono lo stesso tipo di immagini e richiedevano una riflessione diversa.
Molte di queste foto ci consegnano una testimonianza dei campi come luoghi di resistenza oltre che di negazione dell’essere umano.
La natura delle foto e la loro stessa esistenza sono un atto di resistenza. Ma c’è un livello ulteriore: quei luoghi erano pensati per privare le persone della loro umanità, quindi scattare delle foto – spesso di se stessi – implicava riappropriarsi della propria immagine, e di conseguenza del proprio status di essere umano. È un gesto di resistenza fisico e morale. Inoltre molti sopravvissuti hanno contestato l’assenza di queste immagini «dignitose» dalla narrazione che è stata fatta dei campi: le foto che abbiamo visto tutti, quelle fatte dall’esercito di liberazione, rispondevano alla necessità di testimoniare i crimini commessi, e mostravano i sopravvissuti in una situazione in cui erano privati della loro dignità.
All’opposto di questa consapevolezza ci sono i selfie che si fanno i turisti nei campi.
Oggi le persone possono fare foto sempre e ovunque, compresi questi luoghi – al punto che i memoriali e le fondazioni che li preservano hanno dovuto stabilire delle regole restrittive. Le fotografie sono onnipresenti, frutto di un gesto semplicissimo – mentre all’epoca e nel contesto in cui sono state realizzate le foto del film era un fatto eccezionale, che poteva implicare mesi di sforzi e preparazione. Per procurarsi una macchina fotografica, i materiali, per proteggersi dai rischi… Non c’è giudizio nel mio punto di vista, ma volevo mostrare questa differenza fra un gesto estremamente prezioso e uno del tutto triviale.
Il film è costruito sulla ricerca della prospettiva da cui sono state scattate quelle immagini…
Non era necessario trovare esattamente ciò che stavamo cercando: mi interessava il processo che emerge dalla ricerca di quelle prospettive – il dialogo con gli storici, l’interpretazione delle immagini, i dubbi. Volevo inoltre tornare alla dimensione corporale della fotografia – un atto che richiede la presenza fisica «qui e ora», anche se si scatta senza guardare – e per farlo era necessario recarmi nei posti in cui queste persone si trovavano.
George Angeli, deportato a Buchenwald, ha scattato una foto del crematorio ma dopo la liberazione l’ha ritoccata, cancellando con la penna le persone distese per terra a prendere il sole.
Quel passaggio per me è molto importante: ci consente di interrogarci su come e perché un’immagine venga manipolata. L’intento di Angeli era testimoniare le atrocità che vedeva quotidianamente, ma l’unico momento in cui poteva farlo era la domenica pomeriggio. Un paradosso: per poter mostrare la sua orribile realtà quotidiana era obbligato a farlo in un momento che non coincideva con questa quotidianità – la domenica, quando non si lavorava; alla luce del sole – necessaria a impressionare la pellicola – e nel pomeriggio, quando i cadaveri erano già stati rimossi. Ho avuto l’opportunità di parlarne con lui, e gli ho chiesto se si rendeva conto della potenza dell’immagine che aveva catturato: una scena in cui le persone sono talmente assuefatte alla morte che riposano al sole a due passi dal crematorio. Ma lui temeva i tanti negazionisti dell’Olocausto, e che non tutti avrebbero interpretato la foto in questo modo.
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