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Christmas Time

Icone di festa Perché le carte da regalo e le cartoline natalizie pullulano di bambini, ceppi, vecchietti, ragazze da marito? Un corredo di immagini che viene da antiche credenze rurali e non solo

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 19 dicembre 2015

Anche se in Occidente le scorte di cibo sembrano inesauribili, il calore nelle case non viene mai meno e il buio delle corte giornate è compensato da un maggior consumo di elettricità, continuiamo a portarci dentro, più o meno rimosse, le ansie e le paure legate a un mondo preindustriale che aveva poche difese di fronte agli eventi astronomici. D’inverno la morte apparente della vegetazione poteva significare la morte del tempo, la mancanza di luce l’agonia della vita, l’inverno diventava l’inferno e alla diminuita vitalità della terra corrispondeva un avanzare dei defunti e delle paurose figure a loro collegate.

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Gli uomini possono tollerare lo spavento, il timore e persino il terrore, quando questi hanno nome o corpo, ma l’angoscia senza volto è insostenibile, bisogna trasformarla in più gestibile paura, darle nome e figura. Ecco perché durante il periodo natalizio mostri, fantasmi, folletti e antiche credenze ci danzano intorno come un carosello, assumendo forma di leggende, di gesti e soprattutto di immagini: per strada, nelle vetrine dei negozi o sulle pareti delle case, sugli alberi nelle strade o in quelli domestici, come anche sul resto degli oggetti.

Packaging. Il veicolo di comunicazione visiva più immediato è la carta da regalo, supporto indispensabile a partire dal Novecento. Prima di allora i regali venivano appesi all’albero, posti ai suoi piedi o organizzati a piramide su di un tavolo del soggiorno, in genere precluso ai bambini fino alla notte di Natale. In Scandinavia fino all’Ottocento, i doni venivano letteralmente lanciati in casa da una persona anonima che bussava alla porta: da qui il nome Julklapp (Jul, Natale e klappa, nel senso di battere). In questa anonimità del portare di doni c’è sia l’idea che le «cose buone» vengano misteriosamente da un altro mondo, sia l’idea, diffusasi grazie al miracolo delle Tre figlie attribuito a san Nicola, che il benefattore non debba mai farsi vedere.
La carta da regalo cominciò ad essere utilizzata per «nascondere» i doni dei vari parenti e per aumentare la curiosità e la suspense dei bambini. C’è poi un risvolto pratico: tra oggetti sempre più commerciali e massificati, incartare fantasiosamente i regali significava dar loro quel non so che di «personale» che mancava. Così si cominciò a stampare sulla carta di tutto: dai semplici alberelli agli angioletti, dalle palline ai più infantili bastoncini di caramella a strisce curvi all’estremità. Perché sono destinati ai bambini, certo, ma anche perché i dolci sono gli alimenti più amati dagli abitanti dell’aldilà, come dimostra una lunga tradizione di dolcetti (o scherzetti?) al miele i più famosi dei quali sono quelli che Enea portò a Cerbero.
Sulla carta da regalo, come sulle cartoline natalizie dei tempi andati (oggi spedite via web), ricorrono anche diversi altri soggetti: dai mostri provenienti dall’altro mondo alle bande giovanili armate di palle di neve o di strumenti musicali spesso un po’ sgangherati con i quali fanno allegre baldorie, ai dolciumi o alla roba da mangiare, da ragazzini a cavallo di pipistrelli alle streghe che cavalcano scope alla rovescia. Il tutto disciolto in atmosfere che vanno dalla satira all’horror.

Alberi e ceppi. I primi che incontriamo, ovviamente, sono elementi vegetali. Il rinvio all’albero di Natale è il più immediato, ma non il solo. Ritorna spesso nell’iconografia anche un tronco d’albero con braccia e gambe, talvolta sostituito da un pupazzo di neve con tanto di naso a carota, che prende vita, fuma la pipa oppure saluta. I tronchi rinviano al ceppo di Natale, che una tradizione tuttora vivente vuole si debba bruciare nel camino (traendo auspici dalle sue scintille) per tutti i dodici giorni del periodo natalizio. Ma il ceppo può prendere vita non solo perché in queste magiche notti tutto può avvenire, ma perché tradizionalmente viene ritenuto una persona vivente: nella provincia di Siena ancora si usa dire «il ceppo m’ha portatho robba», nel senso che è lui a consegnare i doni oppure, come suggerisce il linguista Mario Alinei, a Castagneto Carducci i bambini appendono le calze al camino «perké ci kahi ‘l ceppo». Frase interessantissima: unisce la tradizione natalizia a quella scatologica legata alle deiezioni e al letame come fonte di ricchezza e fecondità, altrettanto antica. In genere, questo motivo iconografico è stato sostituito e quasi soppiantato dal pupazzo di neve.

Bambini. Altra immagine ricorrente nelle carte natalizie è quella dei bambini, declinata nelle sue varie forme, dai putti alle scatenate bande di ragazzini che litigano a cuscinate o a colpi di palle di neve. Che il periodo di Natale sia dedicato a loro lo si sa: dalla nascita del bambino divino alla strage di Erode (28 dicembre) e all’Epifania, tutto in questo tempo sembra parlare di loro. Ma ci sono anche altre motivazioni: da esserini non ancora formati completamente rappresentano coloro che una forma non l’hanno più, i morti; inoltre, le loro lotte rimandano alle battaglie rituali tipiche dei momenti di passaggio: avranno una funzione magica e fecondante, oltre a dimostrare che il bene vince sempre.

Vecchi. A fare da contraltare ai bambini, un’altra figura ricorrente è quella del vecchio o della vecchia. Il primo riferimento è al vecchio che passa, sottintendendo la stagione o l’anno. Forse modelli più antichi si fanno spazio, a cominciare da Kronos, il Tempo, dio dell’agricoltura e poi diventato il romano Saturno (da sata, i seminativi) che nell’età di mezzo assunse sempre più il sembiante di un distruttore decrepito che si appoggia a stampelle ma è armato di falce, divora i propri figli e posa il piede sulla clessidra. Ma se il tempo è visto come un vegliardo è forse perché i cristiani, almeno dal Medioevo, cominciano a viversi come vecchi, visto che l’essenziale della storia umana era già stato vissuto: il tempo si avvicina al termine.
Se tra le immagini trionfa la Befana, dai calendari ai francobolli si incontra anche la Baboushka, la portatrice di doni russa. La leggenda vuole che si rifiutasse di seguire i Re Magi che andavano a Betlemme accompagnati dalla stella cometa. In alcune varianti, addirittura indicò la strada sbagliata ai tre saggi. In entrambi i casi se ne pentì e partì per cercare il Bambino, senza però mai trovarlo. Nella sua infinita ricerca, alla vigilia dell’Epifania entra nelle stanze dei più piccoli e, pentita, lascia loro dei regali.

Fuoco. Altre icone ricorrenti sono il fuoco o le fiamme. A causa del freddo, certo. Ma forse quei fuochi potranno servire ad allontanare simbolicamente i demoni dell’inverno e, inoltre, possono essere utili a prevedere il futuro, osservando il comportamento di fiamme, scintille e fumo. Ancor oggi, secondo un’antica credenza, si ritiene che se il fumo viene spinto dal vento di tramontana il raccolto dei campi sarà abbondante. In Abruzzo le scintille si chiamano calenne, dal latino kalendae, termine col quale si indicava il primo del mese e che in questa regione stanno a indicare anche i primi dodici giorni dai quali i contadini traggono i pronostici per l’anno nuovo. Esiste poi anche un verbo, calennare, detto di chi pronostica o profetizza in maniera sconclusionata.

Aiutanti. Nell’iconografia natalizia si incontrano spesso dei personaggi che sembrano una fusione tra i nani dei giardini e dei piccoli Santa Claus. Fanno parte della mitica schiera di aiutanti di san Nicola, il donatore per eccellenza: in genere figure villose, munite di corna e con il viso tutto imbrattato di fuliggine con una lunga e vistosa lingua rossa che penzola grottescamente dalla bocca. Li incontriamo anche nelle processioni del periodo natalizio, travestiti da animali e con indosso cinture adorne di campanacci di vacca. Spesso alcuni di questi mostruosi personaggi hanno un uncino, krampe, con il quale si presuppone agguantino i bambini per mangiarli. Oggetto che è rimasto anche sul braccio del cattivo Capitan Uncino di Peter Pan.

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Ragazza nubile. Una figura ricorrente, dolce e gentile quanto incomprensibile, è quella di una signorina benvestita e sorridente che ritroviamo spesso tra le cartoline natalizie. Popolarmente si chiamerebbe «ragazza da marito» o «zitella», collegata anche alle «zite» le scintille che produce il camino, che possono anche chiamarsi «zide maridade», se continuano ad ardere per molto tempo. La ragazza nubile ed elegante è legata al periodo e soprattutto a san Nicola, che nel medioevo ebbe il patronato sulle fanciulle da marito. Ancor oggi, per questa «specializzazione» del santo, le ragazze lorenesi in cerca di marito vanno, la sera della vigilia della sua festa, nel santuario di Saint-Nicholas-de-Port a camminare sulla «buona pietra» e sempre in Francia, le ragazze di Provins spostano significativamente avanti e indietro il chiavistello della porta della cappella di Nicola, cantando Patron des filles, Saint-Nicolas / Mariez-nous, ne tardez pas (Patrono delle fanciulle, san Nicola / Sposateci, non indugiate). Quando si tratta della sfera amorosa trascendere è scontato, così se in un inno del XV secolo il santo fecundavit hic steriles, nelle isole sulla costa dei Paesi Bassi un canto di marinai, «Le ragazze di Sinterklaas», parla di giovani dai facili costumi, mentre espressioni come «andare da San Nicola» e «stare con San Nicola» si riferiscono ad attività sessuali.
Corollario di queste benedizioni di fecondità è la ricorrente icona della famiglia riunita e numerosa. Perché il Natale è diventata le festa della famiglia per eccellenza, ma anche perché tra le righe possiamo leggervi caratteristiche di fertilità e fecondità che in realtà diventano un desiderio. Tra l’altro, sempre le scintille divinatorie di cui parlavamo prima, possono anche chiamarsi, almeno in Abruzzo, parenti: ricchezza quindi acquisita mediante una famiglia numerosa.

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