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Chris lo svizzero in prima linea

Chris lo svizzero in prima linea

Croazia 1991 Un giovane giornalista si arruola in una guerra non sua e muore: ecco il reale scenario vissuto in prima persona e raccontato nel film «Chris lo svizzero». Diretto da Anja Kofkmel e presentato al Festival dei diritti umani, riletto da un reporter di guerra

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 25 maggio 2019

Il film Chris the swiss racconta la storia di Christian Wurtenberg, il giornalista svizzero ucciso il 7 gennaio del 1992 in quella che passerà alla storia come «Guerra d’Indipendenza Croata». Quando lo trovarono indossava la divisa della brigata internazionale di mercenari (PIV: Prvi Internacionalni Vod) che combatteva con i croati contro l’esercito popolare jugoslavo (JNA: Jugoslovenska Narodna Armija) Sul suo corpo non c’erano ferite: è morto per strangolamento.
Perché un ventiseienne svizzero ha scelto di smettere di fare il giornalista e di arruolarsi in una guerra non sua? È stata una conversione o un tentativo fatale di giornalismo estremo?

ANJA KOFMEL
Le domande che si pone Anja Kofmel, regista, disegnatrice delle animazioni del film e cugina di Chris, partono dallo smarrimento provato alla notizia della sua morte. Anja lo amava come una bambina di dieci anni può fare. Per lei era un modello. Uno che viaggiava e tornando le sorrideva, che un giorno parte e non torna più. Vent’anni dopo Anja porta sullo schermo una sua elaborazione del lutto, la ricerca di senso attraverso la raccolta di testimonianze dirette di colleghi di Christian e di combattenti.
Che potere d’attrazione ha la guerra sugli esseri umani? Il film non risponde e non assolve. Delimita la cornice dove si svolge la scena, la riempie di buio e ci trascina dentro gli spettatori. Guardare negli occhi i testimoni, che siano giornalisti, killer o entrambe le cose, permette un rapporto empatico con loro, elude la celebrazione e lascia nel dubbio. «C’è aria di famiglia in questa foto», dice Clint Eastwood nella scena finale di Per qualche dollaro in più. Forse è questo che rende Chris the swiss così reale e angosciante.
Guardando un documentario d’animazione, la memoria torna a Valzer con Bashir dell’israeliano Ari Filman (regista e sceneggiatore), dove il protagonista affronta la sua personale rimozione dell’esperienza da soldato invasore nell’esercito israeliano in Libano nel 1982 (quello che diede copertura alla strage di palestinesi a Sabra e Chatila), ma qui la conclusione non è auto-assolutoria.

ADDESTRAMENTO
Anja non nasconde un episodio inquietante della vita di Chris: la partecipazione a un campo d’addestramento militare in Sudafrica nel 1983, ai tempi della guerra d’indipendenza della Namibia, quando lui aveva appena diciassette anni. Una carta che Chris si giocherà come referenza in Croazia, chiedendo di arruolarsi nella PIV. La guerra è «una scelta tra il male e il peggio» dice un mercenario, un luogo dove ci si può perdere e fare scelte estreme. Già, ma allora perché la guerra attrae?
Raramente l’atmosfera claustrofobica che si respira in guerra è percepibile in modo così diretto. I movimenti dei disegni in bianco e nero di Anja tolgono il fiato. Alberi neri escono dalla terra a imprigionarti, la morte arriva come uno sciame di mosche nere, le facce dei soldati sporche di nerofumo, i passamontagna dei commandos neri come i cuori degli assassini.
Eravamo «drogati d’adrenalina» dice uno di loro con l’espressione di chi evoca il piacere di uccidere e il rischio di morire come un ricordo romantico. L’adrenalina è una droga potente ed esserne dipendenti può accomunare combattenti e giornalisti, soprattutto quelli che amano definirsi «reporter di guerra» (ma una complicità basata sulla retorica del coraggio, piuttosto che su valori comuni, è davvero molto ambigua). Tra i giornalisti amici di Christian, con lui in Croazia nel 1991, c’è chi crede si sia arruolato per realizzare un’inchiesta sulla PIV e sarebbe stato ucciso perché voleva uscire dal gruppo. Ma c’è anche chi lascia intendere altro: «C’erano giornalisti che non accettavano di essere solo osservatori». Anche nel trailer, Anja ci mostra Chris-giornalista che dice: «ho visto giovani combattere per un’idea, ma l’ho visto anche dall’altra parte», e poi una foto di Chris-soldato che solleva il passamontagna e sorride, sdraiato in terra e armato, in prima linea.

A OSIJEK
Devo precisare una cosa: scrivo di Chris the swiss dopo averlo visto al Festival dei Diritti Umani al MAXXI di Roma, ma nel settembre del 1991 ero a Osijek e quelli della PIV li ho incontrati nell’esercizio delle loro funzioni, da cronista.

EDUARDO
L’ingenuità di Anja si svela quando disegna il loro capo: Eduardo Rosza Flores (madre boliviana e padre ungherese). Lo fa brutto, macho e più grande di com’era in natura. Era piccolo, bisessuale, capace di scrivere poesie e sorridere, come di premere un grilletto o ordinare un omicidio. Come fece con Chris e con Paul Jenks, il fotoreporter inglese amico di Chris, che era arrivato a Osijek per capire le dinamiche e fotografare i luoghi della sua morte. Paul fu ucciso con un colpo alla nuca, dieci giorni dopo la morte di Chris. Naturalmente di entrambi gli omicidi furono accusati i serbi, ma senza nemmeno troppa enfasi. «In guerra si muore», dice Eduardo sprezzante quando gli chiedono di Christian. «Abbiamo eliminato il topo svizzero» disse invece a un fotogiornalista italiano parlando di Chris e minacciando anche lui di morte, per un articolo che riteneva diffamatorio. Sì, perché in guerra si può morire anche per motivi banali. Una parola sbagliata, un sospetto, un momento di rabbia, un delirio d’onnipotenza, un errore. La ricerca di un senso «eroico» alla morte di una persona cara, resta di consolazione a chi rimane.
Dal carcere francese dove sconta l’ergastolo, Ilich Ramírez Sánchez (meglio noto come «Carlos», famoso terrorista internazionale), con gentilezza risponde ad Anja: «Suo cugino è stato ucciso perché era una spia». Deve averglielo raccontato Eduardo stesso, che evidentemente mantenne i contatti con lui da quando lo conobbe in Ungheria, da dove Carlos fu espulso nel 1985 (Carlos è in carcere dal 1994).
Sull’omicidio di Paul va segnalato il lavoro del giornalista inglese John Sweeney e della fotografa spagnola Sandra Balsells. Il documentario Travel with my camera: dying for the truth (Channel Four, 1994) precorre Chris the swiss.
La PIV era sostenuta dal governo croato, come dichiara in video un istruttore militare di reclute, per contrastare l’aggressione della JNA, ma eseguiva soprattutto operazioni sporche di pulizia etnica del territorio a spese dei serbi e delle minoranze non-croate.

Croazia, luglio 1991.
Colazione con Kalashnikov e cappuccino, in un bar.

Eduardo si vantava di aver ricevuto la cittadinanza onoraria croata «direttamente dal presidente Tudjman», ed era alle dipendenze del cosiddetto «proconsole di Osijek»: Branimir Glavas, uno tra i fondatori dell’HDZ, il partito del presidente.
Glavas fu condannato nel 2007 dalla magistratura croata per crimini di guerra commessi alla fine del 1991 contro la minoranza serba di Osijek. Riuscì a sfuggire alla cattura rifugiandosi in Bosnia Erzegovina, dove fu arrestato nel 2010. Ha sempre rivendicato le sue azioni e in carcere ha ricevuto il conforto della visita del cardinale cattolico di Sarajevo Vinko Pulic (febbraio 2011).
Trovare Eduardo ad Osijek nel settembre 1991 era facile. Incontrava giornalisti e rilasciava interviste. Trattava la stampa con la massima disinvoltura, regalando scoop preconfezionati. Con i giornalisti sfoggiava le troppe lingue che sapeva, usando le parole giuste per ciascuno. Con noi de il manifesto parlò di «autodeterminazione dei popoli». Una lieve stonatura perché quello nel 1991 era già un terreno borderline tra destra e sinistra (almeno se non si chiarisce cosa si intenda per popolo e non siano garantiti identici diritti per le minoranze). Scherzammo immaginando che il suo manuale da spia, alla voce «sinistra», fosse rimasto fermo all’anticolonialismo degli anni ’70. Con altri parlò da crociato che difende la terra cattolica, attaccata da ortodossi e comunisti.
Chi era in realtà Eduardo? Un nuovo Che Guevara o un lefebvriano armato che affermava di essere membro dell’Opus Dei? Dipende. Diciamo che era capace di costruire sintonie. Bastava presentarsi come «ex-collega» e chiedere: «tu per chi lavori?» Il resto era consequenziale (siamo tutti un po’ stereotipi). La banalità più gettonata era: «sono arrivato da giornalista e mi hanno sparato, ora sono un soldato e rispondo al fuoco.»
Public relation a parte, Eduardo sparava bene, da tiratore scelto (definizione pulita per chi spara da lontano sulle persone; altrimenti detto «cecchino» se fa lo stesso dalla parte dei cattivi) ed era bravo ad addestrare i nuovi arrivati all’uso delle armi. Tutte attività alle quali di solito i giornalisti non sono preparati.
Arrivato a Osijek come inviato de La Vanguardia di Barcellona, in meno di due settimane si trasformò nel comandante Eduardo. Girava con un fuoristrada con scritto «Espana» sulla portiera e «born to kill» sulla bandierina croata sul cofano.

IL COMMANDO
Il giorno dopo il nostro incontro, ci propose di seguire un commando in un’azione notturna: «Elimineremo dei cetnici per vendicare un nostro caduto.» Voleva farci assistere all’assassinio di serbi tanto poco coinvolti nella guerra da vivere ancora in città. Una proposta oscena che poteva anche essere una trappola, perché un paio di giornalisti italiani (di sinistra, persino) uccisi dai serbi potevano fare comodo. In quel momento i croati subivano la pressione militare della JNA e dei paramilitari serbi (Vukovar cadde due mesi dopo). Lasciammo subito Osijek, senza preavviso.
La carriera di Eduardo in Croazia terminò dopo gli omicidi di Chris e Paul che attirarono l’attenzione della stampa più delle vittime civili dei suoi mercenari.
In troppi iniziarono a porsi domande sui rapporti tra la brigata e il governo o sulla provenienza di armi non in dotazione dell’esercito jugoslavo e che non potevano provenire solo dai saccheggi degli arsenali delle caserme federali. Bastava vedere cosa imbracciavano gli uomini di Eduardo (o di altri capibanda come «le zebre» di Sinisha Dvorski, detto: «il Rambo croato»). Sistemi antiaereo portatili Stinger (americani, ma prodotti anche in Germania e Turchia), fucili a pompa Franchi Spas12 (italiani), mitragliette Uzi (israeliane), etc. Come erano arrivate queste (e altre) armi in Slovenia e in Croazia tra giugno e settembre 1991? Era su questo che Christian voleva indagare? Un’indagine sul coinvolgimento finanziario dell’Opus Dei nel traffico d’armi verso la Croazia viene meglio combattendo insieme a qualche decina di esaltati assassini?
La brigata internazionale fu sciolta, o meglio: inglobata nell’esercito regolare croato che peraltro aveva tra i suoi generali molti uomini formati nella Legione Straniera (Ante Gotovina, Miljenko Filipovic, Ante Roso).
Dopo lo scioglimento della PIV, Eduardo Rosza Flores, sparì dalla Croazia. Di lui si parla in due libri pubblicati in Italia. La controfigura di Luigi Lollini e Opus Dei: l’opera del potere, di Massimo Lauria.
Dopo un passaggio in Iraq, una conversione all’Islam e altro, Eduardo riapparve cadavere nel 2009 a Vera Cruz, in Bolivia, dove il cerchio si chiude con l’assassino che torna a morire dov’era nato (come un salmone atlantico). Muore in un blitz notturno delle forze speciali boliviane. Il rapporto della polizia parla dell’annientamento di un commando che voleva assassinare il presidente Evo Morales. Anche in questo caso Eduardo comandava un gruppo internazionale: un irlandese e un ungherese sono morti con lui, un croato e un altro ungherese sono stati catturati vivi. Ma per raccontare questo ci vorrebbe un altro film.

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