Il confine come linea intangibile di un attraversamento reale, subliminale, metaforico; perimetro di una memoria vulnerabile, intersezione del prima e del dopo. La parola confine – «Border» in inglese, titolo dell’11/a edizione del festival internazionale Kyotographie – esprime il limite di una territorialità da difendere perché, fondamentalmente, l’ignoto è qualcosa che spaventa.
Le sfumature sono tante, almeno quante le diverse interpretazioni suggerite dai fotografi internazionali selezionati dai fondatori e direttori Lucille Reyboz e Yusuke Nakanishi. Quindici esposizioni e un fitto programma di talk e concerti che si svolge nel cuore di Kyoto con il coinvolgimento di autrici e autori tra cui Boris Mikhailov, Dennis Morris, Roger Eberhard, Yuriko Takagi, Paolo Woods & Arnaud Robert che affrontano il tema della «felicità in pillole», il toccante lavoro di Ishiuchi Miyako sulla madre (esposto alla Biennale di Venezia del 2005) in dialogo con quello della giovane fotografa Yuhki Touyama e quello sulla demenza del fotogiornalista Kazuhiko Matsumura. Gli allestimenti e i luoghi stessi che accolgono le mostre sono particolarmente suggestivi, come l’antico negozio di obi Kondaya Genbei Chikuin-no-Ma, le cucine del castello di Nijo-jo (patrimonio Unesco) e dell’Okiyokodoro e tanti altri, avvolti in una dimensione temporale di autentica sospensione.

ALL’INSEGNA DELL’ARMONIA anche il tempio zen Ryosokuin con il tipico giardino secco Muromachi con grandi rocce e sabbia bianca e la casa da tè in stile Momoyama che ospita la mostra Alba’hian dell’ivoriana Joana Choumali, autrice dell’immagine guida di Kyotographie 2023.
Nella lingua Agni vuol dire «la prima luce del giorno»: camminare all’alba, per Choumali, è un’azione quotidiana che indirizza verso una ricerca introspettiva di cui le immagini sono parte del processo. Foto di paesaggi, persone incontrate e situazioni che lei scatta durante quelle lunghe passeggiate ma che si allontanano dall’univocità semantica nel momento in cui vengono lavorate con una tecnica mista di collage, ricamo con il filo dorato o altri colori, cucitura e sovrapposizione di tessuti leggeri. Il ricamo come forma di meditazione, sconfinamento nelle emozioni più diverse tra certezza e incertezza, felicità e paura. Un approccio emotivo che caratterizza anche la serie Jinen di Yu Yamauchi che il fotografo giapponese ha iniziato nove anni fa, trascorrendo lungi periodi nel totale isolamento nell’isola subtropicale di Yakushima nel sud del suo paese.

SEGUENDO L’ESIGENZA personale di sfidare i propri limiti, come nel lavoro precedente sul Monte Fuji (pubblicato nel libro Dawn), dove aveva enfatizzato la sensazione dell’essere parte dell’universo trascorrendo sulla sommità del monte sacro un totale di 600 giorni in quattro anni per fotografare l’alba, Yamauchi si immerge nell’oscurità delle foreste. «Volevo capire il motivo per cui avessi paura del buio» – spiega – un sentimento che risale ai tempi di Adamo ed Eva». In quell’isola che per lui è quasi mistica, dove l’atmosfera è densa di umidità e foschia, convivendo con insetti ed altri animali, inizia il suo dialogo esclusivo con i giganteschi alberi millenari. Fotografare è parte di un rituale più complesso: l’evidenza della proiezione del confine tra conscio e inconscio.