La sede italiana di Twitter ha chiuso e 17 persone, compreso il country manager Salvatore D’Ippolito, hanno perso il posto a Milano. Ora a rischio sono anche le filiali in Germania e in Olanda. È la conseguenza del taglio di 300 persone annunciato dieci giorni fa nel quadro di una ristrutturazione del social media più usato da politici come Donald Trump. In un anno, da quando il cofondatore Jack Dorsey è tornato a dirigere l’azienda, il passerotto cinguettante ha perso il 40% del suo valore di borsa, da circa 26 dollari di valore di metà ottobre il titolo è arrivato a 18 dollari per azione.

Il ramo italiano del social più amato dai suoi utenti non andava male. Il bilancio 2015 è stato chiuso in salute: 3,9 milioni di euro di fatturato. Più 256% sull’anno precedente, il primo d’esercizio, quando era 1,1 milioni, un utile netto di 179 mila euro. Non è bastato per evitare la chiusura. Nel frattempo è stata aperta una procedura tra sindacati e Regione Lombardia per trovare una soluzione occupazionale per i dipendenti.

La crisi di Twitter è nota. L’azienda non cresce a sufficienza, a cominciare dagli utenti. Quelli medi mensili hanno oscillato intorno ai 66 milioni per sei semestri negli Usa. Il fatturato, raddoppiato nel 2014, è aumentato del 15 per cento l’anno seguente. Cifre impressionanti, ma non per un’azienda che, come quelle della Silicon Valley, fondata sul pagamento in base al rendimento dell’innovazione su un mercato ipercompetitivo con i giganti Google o Facebook e la rapida ascesa di Snapchat e Instagram. Se non cresci a ritmi di tripla cifra e non attrai capitali di rischio. Per risollevare le sorti non è bastata la piattaforma video Vine che è stata dismessa. Lo chief operating officer Adam Bain, che ricopriva da gennaio anche la carica di vicepresidente, è stato allontanato. A sostituirlo, è il chief financial officer Anthony Noto.

Nel frattempo continua la campagna lanciata dal ricercatore Nathan Schneider, #WeAreTwitter. L’idea è creare la cooperativa digitale più grande al mondo gestita dai suoi utenti. Un’idea forse irrealizzabile, che potrebbe trasformarsi nel più incredibile esperimento di proprietà collettiva del XXI secolo.

*** OccupyTwitter: Twitter è in crisi, compriamola noi! #WeAreTwitter di Roberto Ciccarelli