Chiara Guidi

«A Nelly Sachs l’ha salvata la voce poetica, portare la parola fuori dal solco abituale del suo uso. La sua poesia dà voce alla polvere». Così dice Chiara Guidi, rivolgendosi a un gruppo di circa trenta coristi, in maggioranza giovanissimi, che da ogni parte d’Italia sono approdati alla Galleria Toledo di Napoli per prender parte al laboratorio «Lettere dalla notte» lo scorso fine settimana. Un «esercizio di lettura rivolto ai cittadini» che la regista, attrice e drammaturga di Cesena, cofondatrice della compagnia Sociètas Raffaello Sanzio, porta in giro da tempo nei teatri italiani. Tre giorni dedicati alla voce e alla partitura delle poesie di Nelly Sachs e dei suoi carteggi con Paul Celan. Chiara Guidi dirige da dentro la scena la performance finale, un rito sonoro e vocale per la poesia, «patria dell’invisibile», accompagnata dalle note del vibrafono di Natan Santiago Lazala.

In che modo lavori con i cittadini?

Non seleziono, né faccio differenza tra attori e non attori: è interessante la possibilità di modellare un’idea in base all’inaspettato, è una pratica artistica, estetica ed etica. Sento sempre più forte quest’aspetto: nelle relazioni, nelle anomalie, nei punti dove apparentemente senti che non c’è alcun tipo di contatto. La questione non è che tutti si livellino al tuo obiettivo, ma vedere come chi non è inserito in quello che stai cercando porti una necessità di trasformazione. La lettura è questo: raccogliere le parole e portarle sul palco, farle camminare. La parola è aperta, per come viene detta dalla voce appartiene a racconti diversi. La voce, pur essendo aleatoria, ha in realtà una responsabilità compositiva molto forte. Per leggere insieme bisogna sottrarsi, la voce arriva se ti fai vuoto dentro, se lasci spazio all’altro.

In poco tempo si costruisce un rito: come?

Con i partecipanti non facciamo un’analisi del significato, semplicemente ci mettiamo queste poesie nella bocca. Col tempo le capiremo. Mi piace questa fretta, smantella la retorica: è il tempo della necessità. Si giunge a un momento in cui tutto precipita velocemente. A me piace entrare sul palco e scappare. Anche la mia voce è qualcosa che è fuori di me, la muovo come un direttore d’orchestra, con tutte le variazioni, le timbriche. Questo è ciò che cerco di dire loro: da una voce all’altra occorre un passaggio, un’armonia, unire parti diverse, popoli diversi tra loro. Noi abbiamo perso l’armonia. A un certo punto Nelly Sachs dice: «Perché dobbiamo fare la lotta tra noi che non sappiamo neanche chi siamo?».

Da anni ti occupi di formazione dei docenti. La poesia, l’arte e il teatro trovano spazio nella scuola?

La voce non solo è umana ma è delle cose, saper leggere i tempi che viviamo significa saper leggerne la voce. La questione si allarga. Devi aspettare, muoverti tra le curve. È un lavoro artigianale che porta a pensare in modo artigianale. L’artigiano procede lento, ha tempo per riflettere su quello che fa. Dalla mia esperienza, posso dire che nella scuola manca l’artigianato della conoscenza. Finché offri una poesia e la spieghi, l’arte non entrerà mai nelle scuole. Chi dà vita a un’opera è dentro all’agire della stessa, non riesce a decifrare l’obiettivo, pone l’accento sul processo di lavoro: chiede alla tua sensibilità di avvicinarti. Un capovolgimento totale nel modo di insegnare, una pedagogia nell’approccio al testo che è molto simile al teatro, e dovrebbe esserlo anche alla scuola. La poesia non si può spiegare: chiama a un confronto personale con la parola, risuona in modo diverso a seconda di chi la legge. Va letta a voce alta, agli altri: tra la poesia e te ci sono gli altri. Essere disposti ad andare in un altrove con la tua voce, affrontare un problema di costruzione della tua presenza, predispone all’accoglienza. La differenza sta nella sensibilità d’approccio, è un discorso che Valery e un certo tipo di filosofia facevano già all’inizio del Novecento: la questione dell’«immediatamente vicino», del «quasi immediato», dell’esserci. Esattamente il contrario della dimensione in cui viviamo oggi, completamente distaccata dall’esperienza. A mio parere chi insegna teatro nelle scuole dovrebbe essere regista, attore, scrittore. Al contrario, nella maggior parte dei casi si tratta di insegnanti pieni di nozionismi che perseguono obiettivi, crediti formativi, competenze in medium digitali.

Spesso oggi anche il processo artistico non sembra più frutto di un lavoro artigianale.

La sensibilità produce immagini. Dalle immagini, diceva Aristotele, nasce il pensiero. La Sociètas o i Magazzini Criminali producevamo tantissima teoria. Era un modo di rivedere il teatro, l’arte in generale. Ora ho come la sensazione che molti spettacoli si riducano all’esposizione di un concetto che viene soffocato da tutto quello che vuoi dire sopra. È la spettacolarizzazione dell’idea. Se hai un’intuizione devi sfondarla, aprirla, vedere cosa nasconde, uscire dai parametri riconoscibili. L’arte è qualcosa che si solleva dalle profondità. La Venere Anadiomene viene fuori dall’acqua, la bellezza viene fuori dall’oscuro. Non ci sono linguaggi che possano anticiparne la presenza, parole preconfezionate che possano contenerla.