Chiamata di correo per le imprese che non investono e non innovano
Economia Le imprese devono smetterla di pietire soldi pubblici, con le associazioni e chi le rappresenta anche politicamente. Devono rischiare nella ricerca della produttività.
Economia Le imprese devono smetterla di pietire soldi pubblici, con le associazioni e chi le rappresenta anche politicamente. Devono rischiare nella ricerca della produttività.
Storicamente nel capitalismo moderno la produttività “spiega” circa il 60% della crescita e l’accumulazione il 40%. Il dato di fondo sulle imprese italiane riguarda produttività e investimenti. La produttività – innovazione e progresso tecnico – è il principale motore dello sviluppo economico. L’altro motore, complementare, è l’accumulazione di capitale, il volume del risparmio investito. In Italia dal 1999 il Pil è aumentato molto poco, prima che nel 2020 la pandemia lo abbattesse del 9%. L’apporto del capitale è stato minimo, quello della produttività nullo: i due motori spenti, per vent’anni!
Le regole di bilancio, il taglio degli investimenti pubblici, il neo-mercantilismo tedesco hanno frenato la domanda globale nell’intera area dell’euro. Ma il fatto che la crescita del Belpaese sia stata nettamente inferiore a quella, pur bassa, europea conferma che il problema dell’Italia è radicato nel profondo della sua economia, del suo Stato, della sua società civile.
Le politiche economiche e istituzionali, da anni e da molti indicate come necessarie, sono rimaste largamente inattuate dai governi, di destra e di sinistra, che si sono alternati. Sono rimaste inattuate su molteplici fronti: investimenti in infrastrutture; Mezzogiorno; rientro del debito pubblico ed efficienza della P.A.; nuovo diritto dell’economia; concorrenza; perequazione dei redditi e delle opportunità.
Eppure, la chiamata di correo, oltre che a governi e parlamenti, deve estendersi alle imprese italiane. Il contesto, che competeva ai governi e ai parlamenti di migliorare, non le ha facilitate. Ma è mancata, rischia tuttora di mancare, una loro autonoma risposta alle difficoltà strutturali dell’economia, poi inasprite dalla pandemia.
Le imprese – nell’aggregato, con valide ancorché rare eccezioni – hanno investito poco e non hanno innovato. Mentre la loro produttività ristagnava hanno tuttavia lucrato ampi profitti, con punte da record storico nei primi anni Duemila e buoni livelli anche in seguito, recessioni a parte. Li hanno impiegati in notevole misura per togliersi i debiti e in attività finanziarie: i debiti sono scesi dal 60 al 40% del passivo di bilancio, il primo socio è arrivato a possedere 2/3 delle azioni o delle quote societarie.
Invece di ricercare il profitto lungo la via maestra degli investimenti in impianti e macchinari, della innovazione, della produttività le imprese italiane hanno scelto la via facile al profitto, lungo tre direttrici: il tasso di cambio sottovalutato in lire, poi deprezzato dalla massa di liquidità inutilmente creata dalla Bce; il salario, ristagnante su bassi livelli; i trasferimenti e le commesse statali, l’evasione e l’elusione di imposte e contributi. La via facile è apparsa alle imprese vincente oltre l’immediato, sebbene sia invece miope e alla lunga sicuramente perdente, per loro stesse oltre che per l’economia del Paese.
La pandemia ha ulteriormente squadernato la prospettiva della via facile, la via della irresponsabilità. Domina una pretesa, a cui nessuno si oppone, nemmeno gli economisti di fede liberista. La pretesa è che lo Stato, con l’apporto dei contribuenti rispettosi dei doveri fiscali, non solo integri, come richiede la solidarietà sociale, i redditi dei disoccupati, dei cassintegrati, delle famiglie in povertà, ma avvalori i profitti a cui aspirano imprese e professionisti attraverso ristori, sostegni, sussidi che compensino i rischi propri dell’agire in un’economia di mercato capitalistica.
Quando si supererà la pandemia l’economia italiana non tornerà alla crescita se lo Stato non avvierà con urgenza – con o senza aiuti europei – quanto ha mancato di fare in vent’anni. Ma non vi tornerà nemmeno se lo Stato dovesse agire in tal senso, a meno che le imprese non riscoprano la via maestra al profitto: la via che almeno in due occasioni – l’età Giolittiana e il miracolo economico – seppero percorrere perché frustate dalla concorrenza.
Devono, le imprese italiane, smetterla di pietire soldi pubblici, col favore delle loro associazioni di categoria e di chi le rappresenta anche politicamente. Devono rischiare i danari propri, impegnarli nella ricerca della produttività. Devono capire che, in un’economia che esse stesse amano dichiarare di mercato, la via facile non è ulteriormente percorribile. Se anche lo fosse nello stress da pandemia e nel lassismo compiacente di chi governa a caccia di consensi, quella via non assicurerebbe loro la sopravvivenza nel mondo globalizzato, competitivo, segnato da nuovi paradigmi culturali e tecnologici, da incerti equilibri geopolitici, con l’America stordita e la Cina debordante.
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