I libri di sport vivono una parabola discendente inesorabile. Il segnale più evidente viene da Milano, dove ha chiuso dopo quaranta anni di attività la Libreria dello Sport di via Carducci, aperta nel 1982, quando l’interesse per i libri di sport cominciava a diffondersi e andava ben oltre quei testi che parlavano di tecnica del calcio o del nuoto. Prima di quegli anni i libri di sport erano relegati nel settore «Tempo libero» delle librerie, insieme a quelli che riguardavano il giardinaggio, gli esercizi fisici per dimagrire, i giochi di società.

L’attenzione più culturale al fenomeno sportivo, che andava dagli studi dell’antropologo Desmond Morris con la pubblicazione di La tribù del calcio ai libri dei sociologi della scuola di Francoforte come Olimpiadi dello spreco e dell’inganno oppure di quella francese che aveva dato alle stampe Sport e repressione, fino ai romanzi dello scrittore inglese Nick Hornby sul calcio, aveva spinto i proprietari della Libreria dello sport di Milano ad aprire altre nove sedi a Bologna, Roma, Napoli, ecc. Abbiamo chiesto ai gestori se la causa fosse stata la chiusura forzata dovuta al Covid oppure i colossi della distribuzione come Amazon, che strangolano le piccole realtà, ma la risposta è stata di altra natura: «La gente non compra più libri di sport e chi entra spende meno di 12 euro». La chiusura delle Librerie dello Sport sollecita quindi una domanda: qual è il livello dei libri pubblicati in Italia in questi ultimi anni? Perché se «il cliente ha sempre ragione» come si suol dire in ambito commerciale, forse anche il lettore ha sempre ragione, visto che apre il portafoglio e tira fuori i soldi.

In quest’ ultimo decennio abbiamo assistito alla proliferazione incontrollata di libri dalla scrittura rozza, pubblicati da giornalisti sportivi che stretti nel loro ruolo aspiravano a diventare scrittori. Con la complicità di piccole e grandi case editrici, hanno scritto libri sui vari campioni di calcio o di qualche altro sport, raccontandoci semplicemente il percorso biografico. Libri inutili, che giacciono invenduti negli scaffali delle librerie, pubblicati per alimentare solo il narcisismo di coloro che li hanno scritti. Tanti volumi avevano in appendice la storia del calcio e tutti hanno scritto le stesse cose. A fronte di tanta superficialità, forse la migliore storia del calcio pubblicata negli anni più recenti in Italia è quella del francese Paul Dietschy.

Alla categoria dei giornalisti sportivi si è aggiunta, anche se con maggior contegno, quella dei docenti universitari che, forti dei contributi finanziari riservati loro dalle Università dove insegnano, hanno avuto gioco facile nella pubblicazione di libri sullo sport. Un connubio fatto di baronia universitaria e di scrittura giornalistica da bar sport, che ha abbassato il livello dell’editoria sportiva. A queste due categorie si è aggiunta una terza non meno pericolosa: i romanzieri dello sport dalla penna facile. Il tema è quasi sempre la squadra di calcio del paese, le storie sono impregnate di parolacce, minacce all’arbitro o epiteti al centravanti della squadra avversaria. Di quest’ultima categoria fanno parte rappresentanti di commercio, avvocati, insegnanti. In una di quelle manifestazioni dedicate alla piccola editoria, che dovrebbe essere più attenta alla qualità dei libri, ci siamo trovati tra le mani un romanzo sul Giro d’Italia scritto dal proprietario di sette supermercati sparsi tra la Toscana e l’Abruzzo, pubblicato a proprie spese. Talmente alto è stato l’entusiasmo suscitato dal primo libro che l’autore si è buttato a capofitto nella stesura del secondo, trascurando l’attività manageriale, questa volta sul Tour de France, sempre a sue spese, ma pubblicato da una casa editrice media.

In vista del Salone del Libro (Torino 19 – 23 maggi), numerose case editrici hanno annunciato la presentazione di libri che vanno dalle passeggiate tra i vigneti in Friuli alle scalate delle vette più alte in bicicletta. Anche quelle che hanno fatto scelte più ardite, pubblicando scrittori stranieri che attraverso lo sport affrontano il tema della globalizzazione, del razzismo, della deindustrializzazione, hanno finito per ripiegare sulle più redditizie biografie dei campioni.

Tra i lettori di sinistra hanno fatto breccia i libri su George Best, simbolo dei calciatori «ribelli» tutto sesso, droga e rock n’roll, o quelli su Maradona vissuto come simbolo di una ribellione anticapitalista, a discapito di uno scrittore come Osvaldo Soriano che di racconti sul calcio ne sapeva scrivere e non solo quelli. Si tengono alla larga dai romanzi sullo sport, alcuni scrittori che pur manifestando interesse verso questo mondo, si riterrebbero declassati, come ci hanno confessato in privato. In controtendenza Mauro Covacich con il romanzo Sulla corsa e Sandro Veronesi con Un dio ti guarda.

Ancora sul calcio nei primi anni ‘90 Descrizione di una battaglia, i rituali del calcio di Alessandro Dal Lago, collaboratore del manifesto recentemente scomparso, che ha dato la spinta propulsiva a quella stagione di interesse e di studio sul fenomeno sportivo in tutti i suoi aspetti, compreso il suo ultimo Sangue nell’ottagono, che forse ha simbolicamente chiuso quel periodo.

Manca in Italia un’editoria sportiva che pubblichi riflessioni frutto di ricerche collettive o individuali sul fenomeno sportivo nelle sue più vaste implicazioni, che elevi la «chiacchiera sportiva», come la chiamava Umberto Eco, a Discorso su due piedi, come titola una interessante conversazione sul calcio tra Carmelo Bene ed Enrico Ghezzi.

Gli editori pubblicano libri di sport come semplice operazione di marketing, si preoccupano poco del testo, e chi legge spesso compra il campione più che il contenuto.

Nelle recensioni la critica è completamente scomparsa, non rappresenta più un punto di riferimento sicuro del lettore. Ed è proprio questa mistura ad aver generato e alimentato la mediocrità che caratterizza l’editoria sportiva italiana del nostro tempo.