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Chi si rivede? La governance del Fmi

Chi si rivede? La governance del FmiJoe Biden

Crisi ucraina Dal grande crack del 2009 al primo prestito (12 miliardi di $)

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 aprile 2014

Settembre 2008, crolla Lehman Brothers. La crisi esce dal perimetro americano e contamina l’intero pianeta. Ci siamo ancora dentro, con tutto il ventaglio di problemi che l’eurozona, la vittima più illustre della congiuntura, sta affrontando.

Ma prima dell’Irlanda e del Portogallo, prima di Cipro, della Grecia e dell’area della moneta unica nel suo insieme, sono state la fascia orientale dell’Ue, i Balcani e lo spazio post-sovietico a evidenziare le crepe più profonde, ricevendo il soccorso del Fondo monetario internazionale e divenendo dunque il primo laboratorio di austerità.

A ottobre e novembre del 2008 il Fmi stanziò dodici miliardi di euro in Ungheria e altri dodici in Ucraina. A Budapest, dove sono intervenute anche Banca mondiale e Ue (in tutto il prestito è stato di 20 miliardi), si trattò di sostenere il sistema del credito e snellire il debito pubblico, il più alto dell’Europa centro-orientale. A Kiev vacillarono tutti i fondamentali e il sistema bancario si ritrovò al tappeto.

A dicembre fu la Lettonia a essere soccorsa. Strauss-Kahn, l’allora numero uno del Fmi, mise sul tavolo due dei circa otto miliardi necessari a salvare Riga. Anche le vicine Tallinn e Vilnius iniziarono a macinare austerity, senza però arrivare al bailout.

Nel 2009 i rubinetti furono aperti di nuovo. Alla Bielorussia andarono due miliardi, alla Bosnia poco meno, alla Serbia tre e alla Romania tredici, sui venti complessivi del piano d’aiuti.

Che effetti ha avuto la cura Fmi in questi paesi? Qualcuno considera la Lettonia una storia di successo, visto il rapido recupero. Altri, come Paul Krugman, sostengono che dietro questa visione ci sia troppo ottimismo. Per molti, semplicemente, la repubblica baltica è troppo piccola per fare scuola. In ogni caso ha preso più che alla lettera la filosofia austera, tanto che lo stesso Fmi ne ha criticato tagli e sforbiciate varie che hanno acuito le disuguaglianze sociali.

Questa postura potrebbe stupire, ma bisogna considerare che rispetto agli anni ’90 si presta maggiore attenzione ai rimbalzi sociali del binomio prestito/condizioni. Da un lato la critica di Joseph Stiglitz all’approccio ultra-liberista di Fmi e Banca mondiale, elaborata dal premio Nobel per l’economia quando era capo economista di quest’ultima (1997-2000), ha introdotto qualche accorgimento in più. Dall’altro, la crisi ha dato al Fmi il profilo di colonna della governance globale. Dunque c’è l’esigenza – non così rispettata nella pratica, vedi in particolare alla voce Grecia – di contenere un po’ i provvedimenti più draconiani.

Se la Lettonia è uscita dalla recessione a colpi di austerity, benché il balzo all’indietro del 2008-2009 è lungi dall’essere assorbito, l’Ungheria lo ha fatto rifiutando la ricetta di Fmi, Banca mondiale e Ue. Il primo ministro Viktor Orban, appena riconfermato con una slavina di voti, ha portato avanti una politica statalista, la risposta di destra alla crisi, si può dire, tassando le grosse aziende straniere, riacquisendo asset e giocando di spesa pubblica. Ma il successo di Budapest, che ha estinto il prestito del 2008, è tutto da verificare nella tenuta, visto che i continui tagli ai tassi praticati dalla Banca centrale, una delle chiavi della ripresa, non possono certo andare avanti all’infinito.

Tra le altre esperienze del Fmi a Est si segnalano il mezzo fallimento in Bielorussia e le difficoltà incontrate in Bosnia. Minsk non ha fatto riforme e ha sfruttato il Fmi come diga verso gli appetiti economico-politici russi. Invece a Sarajevo i veti incrociati tra partiti etnici, una costante della storia post-bellica del paese, hanno inceppato anche la macchina del Fondo.

Sempre nei Balcani, si attende che a Belgrado si faccia davvero sul serio. Il nuovo primo ministro Aleksandar Vucic, forte del plebiscito da poco ottenuto alle elezioni politiche, è in procinto di lanciare una politica ancora più rigorista di quelle dei precedenti governi.

Quando alla Romania, sia i governi di destra che l’attuale coalizione a guida socialista si sono adeguati, più o meno obtorto collo, alle politiche austere. Bucarest è fuori dalla recessione, ma grazie all’export realizzato dagli investitori. I consumi ristagnano, la classe media fatica, si continua a emigrare.

Per finire, l’Ucraina. Le condizioni poste dal Fmi e dall’Ue in cambio dei trenta miliardi che verranno erogati nei prossimi tempi sono le stesse presentate nel 2008: riduzione del deficit, qualche balzello in più, aumento delle tariffe del gas, ammodernamento industriale, riforme. Ma a Kiev c’è un forte blocco anti-cambiamento trainato dagli oligarchi, che dall’indipendenza si sono arricchiti frenando l’ascesa della classe media, se non addirittura impoverendo la popolazione. L’ostilità alle riforme portò alla sospensione del prestito del 2008. Stavolta il Fmi riuscirà a sfondare? Se sì, chi sarà a rimetterci? I pochi ricchi o i tanti poveri?

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