In una parola
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Chi ricatta davvero Giorgia Meloni?

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Pubblicato 10 mesi faEdizione del 16 gennaio 2024

Ricattare, parola composta dalla particella latina re- e dal verbo captare, intensivo di capere, prendere. Così il Dizionario etimologico online. Continuare a prendere, estorcere, avendo armi più o meno occulte per costringere la vittima a cedere, pagare, obbedire.
L’immagine del “ricatto” sembra divenuta centrale nella simbologia politica italica, per l’insistenza con cui proprio il/la presidente del Consiglio ci ha abituato a sentirla evocata.

La prima volta l’affermazione fu esplicita: rivolta alle parole aggressive scritte su un foglietto ripreso da telefonini indiscreti da Silvio Berlusconi, che mal tollerava il decisionismo della leader di Fratelli d’Italia. Definita «supponente, prepotente, arrogante e offensiva». Giorgia Meloni, pressata dai giornalisti, commentò lapidariamente: «Mi pare che tra quegli appunti mancasse un punto e cioè “non ricattabile”».

Nessun dubbio su chi volesse esercitare il ricatto e anche sull’oggetto: erano i giorni in cui si decidevano ministeri e posti di potere nel nuovo apparato di governo.
Ma l’ultima esternazione meloniana, nella lunga conferenza stampa di fine-inizio anno, ha assunto una fisionomia assai meno circostanziata, sconfinando quasi in un concetto astratto, o semmai vicino a un voto personale: non essere ricattabile, ha detto letteralmente la premier «è un manifesto della mia storia». E ancora: «Lo ribadisco tutte le volte che posso, non sono una persona che si fa condizionare…». Eccetera.

Per la verità erano stati evocati da Meloni soggetti che “pretendono di dare le carte” o “condizionare l’attività del governo”. Quindi molti si sono sbizzarriti a cercare dietro le allusioni i profili di altri emuli di Berlusconi. Nella sua maggioranza (magari chi ancora custodisce fuori-onda inopportuni del suo ex compagno), oppure nell’opposizione (non molto minacciosa, per la verità), o anche nelle segrete stanze di quei “poteri forti” che da molto tempo in qua non si capisce bene che cosa e chi possano essere (a meno che non si faccia riferimento a qualche potere statale o economico effettivamente abbastanza forte, magari fuori dai confini del Bel Pese).

Mi è venuta in mente un’altra ipotesi. Intanto, se qualcuno ripete tanto spesso una negazione, viene il sospetto che sotto-sotto si voglia esorcizzare, rimuovere, una condizione effettivamente vissuta, subita. Il/la presidente del Consiglio è effettivamente sotto un ricatto al quale non riesce a sottrarsi?

Forse si tratta di un ricatto che sussiste in una singolare forma di rimosso, di “inconscio collettivo” che si aggira dalle parti di questa imprevista destra-destra al governo. Una cultura politica legata al retaggio di un passato fascistoide, intrisa di culto virile e machista (vedi il plotone militarizzato monosex di Acca Larenzia, e altri simili ritrovi, su cui Meloni ha glissato) ha finito con esprimere la prima donna a capo del governo. Esito che ha certamente aiutato anche la altrettanto imprevista vittoria di un’altra giovane signora, Elly Schlein, al vertice del principale partito all’opposizione.

Mi è capitato di sentire da una importante esponente del femminismo italiano, dopo l’incarico a Meloni, questa frase: «La differenza sessuale ci è caduta in testa!». Forse, in modi contorti, è caduta in testa anche agli stessi vincitori.

Ecco il “ricatto” simbolico: ci hai fatto vincere e ti promuoviamo, prima nella storia del Paese, al vertice dello Stato. Ma fai in modo che questo non significhi davvero una vittoria della libertà femminile! Quel maschile singolare preteso per la carica più importante non è un segno che il ricatto viene subito?

Quanto e come poi la cosa funzioni, resta da vedere.

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