È domenica, tardo pomeriggio. Davanti alla sede del governo messicano, una quarantina di persone espone i ritratti di quattro donne e un uomo. Sono una goccia nel mare: il Palazzo Nazionale affaccia sulla piazza principale di Città del Messico, che come in ogni altra città messicana si chiama Zocalo – ma lo Zocalo capitalino è sterminato, come sette campi da calcio. Posano fiori, accendono candele, parlano a turno con un megafono. Sui manifesti ci sono i volti del fotoreporter Rubén Espinosa, dell’attivista e artista Nadia Vera, della modella Mile Martín, della studentessa Yesenia Quiroz e della collaboratrice domestica Alejandra Negrete.

È IL SETTIMO anniversario della loro morte: il 31 luglio 2015 sono stati torturati e assassinati con un colpo di grazia alla testa da tre sicari nell’appartamento dove vivevano nel tranquillo quartiere Narvarte, in calle Luz Saviñon 1909. Nei giorni seguenti l’indignazione per la strage nella quale era rimasto coinvolto anche un giornalista, l’ennesimo ucciso in uno dei paesi più pericolosi al mondo per chi svolge questa professione, aveva raggiunto l’Italia con l’appello #MéxicoNosUrge, pubblicato dal manifesto e firmato tra gli altri da Dario Fo, don Ciotti, Roberto Saviano e Paco Ignacio Taibo II: “Gli omicidici impongono di non rimanere in silenzio: dinanzi alla condizione che vive chi vuole denunciare la situazione che subiscono milioni di persone in un Paese che l’Italia e l’Unione Europea riconoscono soltanto come importante socio commerciale”.

LA COLONIA NARVARTE è un quartiere di classe media, nato negli anni Venti dall’urbanizzazione dell’enorme hacienda che un tale spagnolo De Narvalte acquistò nel ‘700: ampie avenidas, larghe aiuole, uno dei più grandi centri commerciali della città, il Parque Delta, costruito sulle ceneri di quello che era il tempio del baseball cittadino. Un quartiere tranquillo, un luogo sicuro. Cinque morti tutti insieme non li vedevano dal 1985, quando ne arrivarono migliaia perché il celebre campo da baseball divenne l’obitorio del disastroso terremoto del 1985.

A SETTE ANNI di distanza familiari, amici e attivisti continuano a chiedere che sia ricostruita “la verità” di quel venerdì mattina, su come sono state condotte le indagini nei mesi seguenti, tra fughe di notizie e prove andate perse per sempre “che ancora oggi garantiscono impunità a chi ha voluto quella strage”, denuncia Patricia Espinosa. È la sorella di Rubén, il fotoreporter.
Nonostante due degli autori materiali siano già stati condannati a oltre cent’anni di carcere a testa e un terzo sia in attesa di giudizio, il plurifemminicidio e omicidio della colonia Narvarte – come lo chiamano gli attivisti di Città del Messico “per contrastare la rivittimizzazione” di molti media locali – è ancora senza mandante e senza movente.

I TEMPI SONO CAMBIATI rispetto al 2015, quando inquirenti e media puntarono subito il dito contro le vittime, collegando il crimine a un traffico di droga mai supportato dalle prove ed escludendo, a indagini appena avviate, che fosse collegato al lavoro giornalistico di Rubén Espinosa o all’attivismo di Nadia Vera. Da quasi quattro anni, con l’elezione di López Obrador al governo federale e Claudia Sheinbaum a quello cittadino, la procura generale della città mantiene invece incontri periodici con i familiari e con i loro avvocati per fare il punto sulle indagini. “Abbiamo aperto un’altra linea di investigazione oltre ad approfondire quella già esistente a Veracruz e richiesto l’intervento di esperti della guardia nazionale”, ha scritto la procura.

Per i familiari, però, la “volontà di fare passi avanti è solo a parole: nessuna delle otto linee di investigazione aperte sul caso ha portato a dei risultati e gli unici progressi sono stati raggiunti da noi con una perizia indipendente sulla base di prove che ci sono state negate per anni e che invece avrebbero potuto essere determinanti dal primo giorno”, ha sottolineato Patricia Espinosa.

IL RIFERIMENTO è al dossier presentato a marzo dai familiari e dagli avvocati dell’ong Artículo 19 e di quelli del Grupo de Acción por los Derechos humanos y la Justicia Social nel quale emergono nuove prove grazie all’analisi dei video delle telecamere di sorveglianza della zona e dei tabulati telefonici. “Abbiamo dimostrato che oltre all’auto sulla quale hanno viaggiato i tre sicari tutta l’operazione è stata seguita da un secondo veicolo mai preso in considerazione nelle indagini”, spiega David Peña, avvocato del Grupo. “È un elemento importante perché ci ha permesso di capire che i tre sicari hanno comunicato per tutto il tempo con qualcuno che era all’esterno dell’appartamento”, aggiunge María De Vecchi di Artículo 19. “Pensiamo che la persona che stava dietro quel telefono potrebbe essere quella che ha organizzato la strage, o che l’ha ordinata”.

LE INFORMAZIONI sono state consegnate alla procura a marzo ma da allora niente. Delle otto linee di investigazione aperte sono due quelle sulle quali i familiari chiedono alla procura di concentrarsi. C’è la linea legata a Mile Martín e Yesenia Quiroz, possibili vittime di una rete di sfruttamento sessuale, e c’è quella che porta a cercare i mandanti della strage della colonia Narvarte nel Veracruz dell’ex governatore Javier Duarte. Petrolio, posizione geografica strategica per traffici di droga e migranti, affacciato sul Golfo del Messico e ponte tra il sud e il nord del Paese, il Veracruz ha vissuto un aumento delle violenze nella prima decade degli anni Duemila, con un forte legame tra criminalità, politica e istituzioni locali. In questo contesto, il governo di Duarte si distinse per una forte repressione della libertà di espressione tanto da diventare uno degli stati più letali per i giornalisti.

NADIA VERA e Rubén Espinosa erano molto in vista nelle ‘piazze di protesta’ della capitale Xalapa, con minacce e intimidazioni alle spalle. Il 15 febbraio 2014, Rubén Espinosa aveva immortalato il governatore Duarte con cappellino della polizia, sguardo truculento e panzone protruso. Quella foto era finita sulla copertina del settimanale progressista Proceso con il titolo “Veracruz, stato senza legge”. La notte in cui il settimanale venne distribuito, uomini misteriosi comprarono tutte le copie dai furgonni della distribuzione. La copertina divenne un cult, ma per Rubén Espinosa cominciarono le minacce. Sempre di più. Sempre peggio. Rubén e Nadia fuggirono a Città del Messico, da sempre considerata un luogo sicuro per giornalisti e attivisti. Un mese dopo vennero uccisi. Avevano 32 anni.

“Gli inquirenti hanno sempre mostrato resistenze ad approfondire questa pista perché condurrebbe a responsabilità politiche e a quel tempo tutta la struttura di governo, da quello federale di Enrique Peña Nieto a quello statale di Duarte, era del Pri ”, spiega l’avvocato Peña. Il Partido Revolucionario Institutional ha governato il Messico per oltre 70 anni. Anche se nessuno può affermare che ci sia un legame tra la strage della colonia Narvarte e la repressione in Veracruz, i nomi di Rubén Espinosa e di Nadia Vera si sono aggiunti al lungo elenco di giornalisti e attivisti uccisi in quegli anni. A Xalapa ogni anno colleghi e amici si radunano davanti al palazzo del governo per chiedere giustizia, proprio come faceva Rubén, sempre in prima linea alle manifestazioni per i reporter uccisi.

PARLANDO CON ALCUNI colleghi di Rubén ed ex studenti che scendevano in piazza con Nadia che ancora oggi vivono e lavorano nella capitale veracruzana si capisce che questa storia è ancora una ferita aperta. La dimostrazione è una scritta sul pavimento di piazza Lerdo, ribattezzata piazza Regina Martínez in onore della giornalista incómoda uccisa nella sua abitazione di Xalapa l’8 aprile 2012. Quella scritta recita: “Justicia para les 5”. Intorno, come una cornice, i nomi delle vittime. Cinque vittime, un solo crimine: lo stesso messaggio ribadito durante la commemorazione del 31 luglio scorso sotto l’appartamento di Città del Messico in cui sono stati uccisi Nadia, Mile, Yesenia, Alejandra e Rubén. Ed è proprio “grazie a Rubén”, ci spiega Indira Alfaro Hernández, madre di Yesenia, a pochi metri dal civico 1909 di calle Luz Saviñon, “che mia figlia, Mile e Alejandra non sono cadute nel dimenticatoio come le ennesime donne uccise in Messico”. Mirtha Luz Pérez Robledo, madre di Nadia, non crede nella giustizia per le persone morte: “Per me la giustizia è garantire una vita libera dalla violenza a chi è rimasto”.

Da inizio anno, in Messico sono stati assassinati 16 giornalisti. L’ultimo cinque giorni fa.