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«Chi ha fatto salire l’asino sul minareto, lo faccia scendere»

«Chi ha fatto salire l’asino  sul minareto, lo faccia scendere»Padre George Abu Khazen, vicario apostolico di Aleppo – Reuters

Siria Intervista a padre George Abu Khazen, vicario apostolico di Aleppo: «Come si combatte l'Isis?»

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 13 settembre 2014

Padre George Abu Khazen, libanese, è vicario apostolico dall’anno scorso di Aleppo, la straordinaria e storica città per le sue vestigia culturali, ora devastata dalla guerra civile in corso. Il vicario vive nella città siriana dal 2004. Lo abbiamo incontrato a Roma.

Il presidente degli Stati uniti Barack Obama ha costruito un’«alleanza contro il califfato» che comprende oltre a vari paesi della Nato, le petromonarchie arabe. L’idea è bombardare anche la Siria…cosa ne pensa?
Nei paesi arabi c’è un proverbio: «Chi è riuscito a far salire l’asino sul minareto, saprà anche come farlo scendere». Ebbene, chi lo ha fatto salire? In fondo lo ha detto la stessa Hillary Clinton: «Adesso combattiamo quel che abbiamo creato». Per fermare l’Isis e gli altri terroristi, bisogna prima di tutto imporre ad Arabia saudita, Qatar, Turchia e anche Usa di tagliare qualunque rifornimento o finanziamento agli assassini, anche quelli per vie traverse come è successo in Siria con il sostegno alle varie bande armate. E poi chi compra a buon mercato il petrolio venduto da questi tagliagole? Io sono con il Santo padre, che ha detto di fermarli, non di bombardare paesi. Abbiamo visto che gli interventi di guerra degli americani e dei loro alleati non sono mai andati a buon fine, in passato, provocando solo distruzione e morte…Pensiamo all’Iraq, e alla Libia.

La convivenza in Siria è finita?
In Siria convivono da secoli tanti gruppi religiosi. E tanti popoli: questo paese, ora bersagliato dalla guerra e dalle sanzioni economiche, in passato ha accolto centinaia di migliaia di iracheni, palestinesi, libanesi, sudanesi. E, sottolineo, non ha mai creato dei campi profughi fatti di tende, come adesso nei paesi circostanti, nei quali sono fuggiti tanti siriani. L’Isis, ma anche al Nusra e altri gruppi minacciano o uccidono chi non accetta il loro settarismo. Noi lo diciamo da anni ma non ci hanno ascoltati; adesso tutto il Medio Oriente è a rischio, soprattutto se crollasse l’istituzione statale in Siria.

Com’è la situazione ad Aleppo?
È tragica. Come in tutto il paese. Dopo questi anni di guerra, adesso l’avanzata dell’Isis in Iraq e anche verso Aleppo terrorizza ulteriormente la popolazione. Il 60% dei cristiani della città (erano circa 200mila) è andato via, se possibile all’estero. Sono rimasti i poveri…Nei quartieri abitati in prevalenza da cristiani ci si sente assediati, anche se un po’ più al sicuro perché sono controllati dall’esercito nazionale. A lungo i gruppi armati antigovernativi – ai quali si mescolano anche delinquenti comuni – hanno circondato buona parte di Aleppo. Mancava tutto, pane, frutta, acqua, combustibile. Adesso c’è un passaggio per far entrare l’essenziale. Ma la vita è molto difficile. Anche tutte le fabbriche sono distrutte, saccheggiate. Non si lavora…solo chi è nella pubblica amministrazione o i pensionati hanno ancora una fonte di reddito. Quanto agli ospedali, funzionano ma ai minimi termini, e tanti medici sono andati via. Chi è rimasto fa un servizio enorme.

Cosa fanno i religiosi cristiani ad Aleppo?
Innanzitutto va detto che perfino fra i religiosi stranieri – donne e uomini – non se ne è andato nessuno; abbiamo sul posto africani, latinoamericani, europei…Siamo attivi nell’assistenza umanitaria e nel conforto. Cerchiamo anche di ripristinare i servizi; quando hanno fatto saltare l’acquedotto ho fatto scavare un pozzo, l’acqua era a 152 metri…un po’ torbida, ma che gioia. Le mense delle suore di madre Teresa, delle francescane, dei fratelli maristi, dei gesuiti funzionano per tutti, cristiani e musulmani. Un’organizzazione caritatevole musulmana che dà alloggio ad anziani e disabili si è trovata ad un certo momento in piena zona di battaglia; si sono spostati da noi, nella casa chiamata «Gesù operaio». È così in tanti posti. Questo aiuterà la riconciliazione, se e quando la guerra finirà. Se dall’esterno smetteranno di sostenerla.

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