Chi erano (e chi sono) i Red Hot Chili Peppers
Note sparse Ritorno in grande stile per la band californiana con un album dal titolo «Unlimited Love»
Note sparse Ritorno in grande stile per la band californiana con un album dal titolo «Unlimited Love»
A un certo punto, fine anni Ottanta, cominciarono a diffondersi quei video didattici del tipo «Suonare nello stile di», i cui esiti migliori applicavano istintivamente al rock ciò che in linguistica si chiama pertinenza, sviscerando suoni distintivi, tecniche strumentali e signature lick. I Red Hot Chili Peppers lo fanno in prima persona con Unlimited Love (Warner Records), capitolo dodici della loro discografia, in cui recuperano i tratti pertinenti del proprio stile dopo le deliberate digressioni di I’m With You (2011) e The Getaway (2016). Un rappel à l’ordre per ricordare a se stessi chi sono davvero. Passo numero uno: aprire la rubrica telefonica alle voci «Frusciante» e «Rubin». Assieme al chitarrista, rientrato nel gruppo per la seconda volta, anche noi ci sentiamo di nuovo a casa: non ce ne voglia il supplente Josh Klinghoffer, ma dà un senso di risoluzione ritrovare il muting leggero di John sulle semicrome, le sue melodizzazioni accordali di stampo hendrixiano e l’uso espressivo delle scale minori.
ALTRETTANTO stabilizzante il ritorno di Rick Rubin, che della signature sonora dei Red Hot era stato artefice sin da Blood Sugar Sex Magik, col suo approccio olistico capace di scardinare gli automatismi più deleteri della produzione discografica, accompagnando la band verso il nucleo della propria creatività. Anch’essa Unlimited, considerando che dalle lunghissime jam in pre-produzione erano giunte in studio circa cinquanta tracce, setacciate fino a selezionare le attuali diciassette. Passo numero due: rispolverare il vocabolario RHCP. Detto delle chitarre di Frusciante, il basso di Flea torna in primissimo piano con gli articolati riff di Acquatic Mouth Dance, gli slap e i robusti staccati della mano destra, mentre le bacchette di Chad Smith sono ancora frecce di Cupido che congiungono funk e hard-rock. Dulcis in fundo, un Kiedis forse troppo maturo per ballad sentimentali come Not The One e Tangelo, ma non per i suoi flussi di coscienza e le ben note cronache losangeline, che in Black Summer cedono la prima pagina al tema ambientale. Come da manuale, le strofe sono una lunga apnea rap che esplode nei chorus melodicamente liberatori di Poster Child, Here Ever After, It’s Only Natural, She’s a Lover. E pazienza se a un certo punto il trucco mostra la corda, allorché il vecchio Captain Hook sfodera il suo rinomato «hey-oh». Anche quella è una signature.
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