Chi è il mostro? Il riflesso del male secondo Manson
Andrea Argentieri in «Manson»
Visioni

Chi è il mostro? Il riflesso del male secondo Manson

Scene Un tribunale del pubblico nell’ultimo spettacolo di Fanny&Alexander, lo racconta l’attore Andrea Argentieri. Il meccanismo partecipativo, il fascino e il rifiuto, l’adesione emotiva e la sospensione del giudizio
Pubblicato circa un anno faEdizione del 1 ottobre 2023

Ci sono figure di fronte alle quali prendere posizione sembra non solo inevitabile, ma anche doveroso, come se emettere un giudizio servisse a salvaguardare i nostri valori, la nostra umanità. È il caso di Charles Manson, personaggio che necessita di poche presentazioni. Ma non è stato questo l’approccio di Andrea Argentieri, attore della compagnia Fanny&Alexander, che ha vestito i panni del celebre criminale-guru in Manson, spettacolo appena andato in scena al Teatro LaCucina all’interno dell’ex ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano.

«HO CAPITO che l’unico modo per avvicinarmi a lui e per andare oltre al “mito Manson” era sospendere il giudizio, essere veramente un tramite. In fondo è la missione dell’attore: trasmettere l’esigenza che c’è in una voce, qualsiasi essa sia. Tutti possono dare un giudizio nei suoi confronti tranne me» spiega Argentieri. E in effetti lo spettacolo, con la regia di Luigi De Angelis e la drammaturgia di Chiara Lagani, mira a far «emettere un verdetto»: è il pubblico stesso a interrogare Manson, prendendo in autonomia la parola e leggendo le domande predisposte su un foglio, come se facesse parte di una giuria. Un meccanismo partecipativo che consegna agli spettatori parte dell’andamento scenico. Le risposte sono estrapolate da parole realmente pronunciate durante più interviste.

Perché così tante persone sono state affascinate da questa figura? È un tema interessante per il teatro, che deve farsi carico di riflettere l’umano nel suo complessoAndrea Argentieri
A colpire è soprattutto il miscuglio di lucidità e follia, di riflessioni acute sui meccanismi che regolano la società accompagnate da bestialità e deliri di onnipotenza, stati che si alternano senza poterli pienamente discernere. «Il punto è: perché così tante persone sono state affascinate da questa figura, nonostante quello che ha compiuto? Manson parlava spesso di “riflesso”: in me vedete il male che c’è in voi, io sono il modo con cui voi conoscete la vostra oscurità, però ritenete me il mostro, diceva. È un tema interessante per il teatro, che deve farsi carico di riflettere l’umano nel suo complesso».

Ed è proprio il rispecchiarsi nel male ad essere il punto nevralgico dello spettacolo, consegnandoci ad un’auto-analisi che ci lascia inquieti dove si superi il possibile istintivo rifiuto. In fondo anche Manson era un prodotto del suo contesto: genitori tossicodipendenti, un’infanzia tra strada e riformatori, furti, spaccio e galera fino alla formazione della «Famiglia» con la sua devozione smisurata.

LE STORTURE della vita in società hanno plasmato questo personaggio, che non può certo essere giustificato per i suoi atti, ma che continua a interrogarci: in che modo la violenza strutturale del mondo agisce su di noi? «Diventa un’indagine reciproca» spiega Argentieri, che racconta di aver svolto un lavoro «alla Actors Studio» per entrare nei panni e nella mente di Manson, ricorrendo a un coach per studiare l’inflessione della sua parlata dell’Ohio – lo spettacolo è interamente in inglese. Nelle cuffie dell’attore c’è la voce dello stesso Manson a indicare le risposte: è l’eterodirezione, tecnica usata da tempo dalla compagnia, una «possessione controllata» la definisce Argentieri.

Un simile processo mimetico l’attore lo aveva intrapreso per Se questo è Levi, progetto – con cui aveva vinto il Premio Ubu come miglior performer under 35 – dedicato allo scrittore torinese. Anche in quegli spettacoli era il pubblico a porre le domande a Primo Levi, ma la temperatura emotiva, spiega Argentieri, è molto diversa: «Quando interpreto Levi c’è accoglienza: come si può non convergere sulle sue testimonianze della Shoah? Con Manson è molto diverso, giocano insieme paura e fascinazione».

Non è insignificante, infine, il luogo in cui questo spettacolo è nato. All’Ex Paolo Pini le risonanze del passato vibrano ancora forti nell’aria, nello spazio tra i padiglioni, nelle maioliche celesti sui muri. Il teatro – gestito dal 1998 dall’associazione Olinda, che si occupa anche di creare opportunità di lavoro e socialità per persone con disturbi mentali – si trova in quella che era la cucina dell’ex ospedale psichiatrico. Ed è indubbio che Manson abbia a che fare con la complessità della mente umana, quasi fosse una piena personificazione dell’Ombra junghiana. «Sono tutte camere di pensiero, noi non viviamo la stessa realtà, dico a un certo punto, e dirlo qui è forte. La psiche è anche al centro di ciò che accade all’attore sul palco, una questione che mi interessa molto». Manson è comunque pronto per uscire dalle mura del Paolo Pini, a gennaio sarà all’Angelo Mai di Roma e poi in tournée.

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