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Chi è ancora austriaco?

Chi è ancora austriaco?"Apfelkrone", Sonia Leimer

Mostre Una mostra al Kunst Meran / Merano Arte in occasione dell’anniversario dei 700 anni dell’ordinamento della città di Merano con i lavori di cinque artisti - Nicolò Degiorgis, François-Xavier Gbré, Runo Lagomarsino, Sonia Leimer, Renato Leotta - che s’interrogano sulle mutazioni storiche e sociali della città altoatesina

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 3 giugno 2017

“Prova a domandare a un contadino in Galizia, a un calzolaio in Carniola, a un avvocato in Boemia, a un maestro di scuola di Vienna, a un sacerdote del Tirolo settentrionale e a un giudice del Tirolo meridionale che cosa siano.”, scriveva Robert Musil (1880-1942) – “sismografo del tramonto dell’impero asburgico” – nell’articolo pubblicato il 20 agosto 1916 (all’epoca lo scrittore era sottotenente dell’esercito austriaco) sulle pagine del giornale di guerra Tiroler Soldaten Zeitung di cui era il giovane direttore. Riceverai sicurissimamente come risposta: un polacco, uno sloveno, o forse un carniolano, un boemo-tedesco o un cèco, un basso-austriaco o comunque un austro-tedesco, un tirolese, un italiano. Nessuno, alla tua domanda così semplice, risponderà con altrettanta semplicità: ‘sono austriaco!’”. Profetico e anche un po’ provocatorio, Musil era andato dritto al nocciolo della questione identitaria e di appartenenza. E da qui parte Luigi Fassi, in veste di curatore ospite del Kunst Meran/Merano Arte con la mostra Chi è ancora austriaco? (fino al 9 luglio). Esplorare il concetto di storia come “scienza del cambiamento”, diventa ancora più significativo in occasione dell’anniversario dei 700 anni dell’ordinamento della città di Merano.

Effettivamente di cambiamenti nella città-bomboniera considerata da sempre terra d’incontro tra le culture del nord e quelle dell’area mediterranea, se ne sono registrati innumerevoli soprattutto nell’ultimo secolo. Da meta di un turismo tendenzialmente elitario – l’imperatrice Sissi, che amava passeggiare lungo il torrente Passirio (lì dove Hermann Klotz scolpì, nel 1903, il suo candido monumento in marmo di Lasa), ne apprezzava le proprietà curative, così come Franz Kafka che non potendo recarsi a Monaco, nel febbraio del 1920, vi soggiornò per curarsi e da qui inaugurò l’intensa corrispondenza con Milena Jesenská – a luogo di accoglienza per profughi siriani ed africani che arrivano da Lampedusa. Merano, quindi, come “finestra di quello che succede in Europa” per Fassi che ha scelto alcuni artisti ad esplorare queste profonde mutazioni sociali, confrontandosi dal vivo con i diversi passati della città altoatesina (incluso quello di cui è testimone la foto degli anni Trenta scelta come icona della mostra: tre rappresentanti della birra Forst che posano davanti alle piramidi per la foto ricordo con la scritta ben in vista “Forsterbrau”, giunti in Egitto per rifornire una spedizione di archeologi tedeschi) attraverso residenze di una o due settimane: Nicolò Degiorgis, François-Xavier Gbré, Runo Lagomarsino, Sonia Leimer e Renato Leotta.

Letture trasversali, quindi, attraverso percorsi artistici diversi per tecnica, linguaggi, formazione e provenienza dei cinque artisti che hanno dato vita a questa mostra equilibrata e stimolante. Partire dai cimiteri (a Merano c’è anche quello ebraico e più recentemente è sorto quello islamico) diventa un’esigenza per il bolzanino Nicolò Degiorgis (1985), fondatore della casa editrice Rorhof con cui nel 2014 ha pubblicato il pluripremiato Hidden Islam. Nell’opera Menschen ohne Eigenschaften (in italiano suona “uomo senza qualità”) il cimitero è un grande archivio di volti e storie di cui, tuttavia, nell’interpretazione fotografica dell’autore, che focalizza i tondi con i volti dei defunti cancellandone l’identità, viene restituita una suggestiva appartenenza corale in cui identità e alterità si confondono. Sonia Leimer (1977) è un’artista meranese che vive e lavora a Vienna: lei ha scelto di partire dalla tradizionale Festa dell’Uva con la gigantesca “Apfelkrone”, la corona di legno in cui sono inchiodate le mele. Andando oltre l’aspetto folkloristico dell’evento, il messaggio si fa portavoce di un meccanismo dell’economia in cui il sistema produttivo ha visto l’ascesa (e anche la crisi) della produzione ed esportazione delle mele. In questa zona d’Italia, dalla fine di agosto all’inizio di novembre, si raccoglie una sorprendente varietà di mele: Gala, Golden, Fuji e anche la nota Pink Lady. Nel film di Leimar, Pink Lady, al rumore del trapano e del martello risponde il silenzio dell’installazione Untitled con la grandissima cartolina d’epoca “Primavera di Merano”, riprodotta e poggiata sul pavimento della sala, accanto ai misuratori di mele dalla scala imprevedibile. Chiodi sono anche quelli usati da Runo Lagomarsino (Malmö, Svezia, vive tra Malmö e San Paolo, Brasile) nel work in progress Iron Michl in cui egli s’ispira e confronta con la scultura Eiserner Michl (“San Michele di ferro”) di Blasius Mayrhofer realizzata nel 1915 e originariamente collocata presso la Kurhaus (oggi è al Museo Civico Palazzo Mamming) per pubblicizzare la raccolta di fondi per gli orfani e le vedove di guerra. Durante la grande guerra, infatti, si usava piantare un chiodo quando si raccoglieva un’offerta: allo stesso modo, Lagomarsino, lascia che sulla parete bianca del museo venga messo un chiodo ogni qualvolta un migrante riceverà un’elemosina per le strade della città. Dello stesso autore è anche l’opera Sea Grammar (2015) che, pur facendo parte di un progetto precedente, chiude coerentemente il percorso espositivo con un’altra immagine significativa, quella dello Stretto di Gibilterra e del suo metaforico significato di limite della conoscenza, reso attraverso la proiezione della stessa immagine forata ripetuta ottanta volte. “Si fa fatica a capire cosa si stia vedendo.” – afferma Lugi Fassi – “Scompare la leggibilità del Mediterraneo.” Lì dove la mitologia definiva il confine geografico delle Colonne d’Ercole – ovvero della fine del mondo – oggi viene lecito pensare che, piuttosto, ci si trovi di fronte alla “fine di un mondo”.

Tra le opere dell’artista torinese Renato Leotta (1982), oltre a Come nascono le stagioni in cui le immagini girate in 16 mm creano un simbolico ponte Sudtirolo-Sicilia, Alla Patria, racconta in maniera indiretta il territorio. L’artista utilizza blocchi di marmo locale come supporto per cianotipie. Ciascuno dei quattro blocchi è un pezzo unico su cui l’emulsione fotografica trattiene – registrandole – le ombre delle persone, gente del posto. Ricerche d’archivio e tante camminate in giro per la città, all’inizio munito solo di iPhone per prendere qualche appunto visivo, sono state – infine – il punto di partenza per François-Xavier Gbré (Lille, Francia, 1978, vive e lavora a Abidjan, Costa d’Avorio), la cui ricerca ruota intorno all’identità e alla memoria attraverso le tracce della scrittura della storia negli spazi pubblici. Quando il fotografo è arrivato per la prima volta a Merano, a gennaio scorso, ha trovato un paesaggio sospeso, avvolto da un manto di neve e da un freddo pungente. L’idea originaria della serie I miei piedi nelle tue scarpe (traduzione letterale del francese “Ton pied mon pied”) sarebbe stata quella di contattare l’unico emigrato ivoriano che vive in città e di cui egli avrebbe ascoltato e condiviso la storia. “Mi sarei messo nei suoi panni per fotografare la città attraverso la sua esperienza, positiva o negativa che fosse”. Ma quella persona non ha mai risposto alle email di François-Xavier, né alle telefonate fatte da Abidjan e poi da Merano. “Alla fine anch’io ero nella sua posizione di straniero, di qualcuno che non sa nulla di un posto. Andavo in giro da solo, non conoscevo nessuno. In quel periodo dell’anno il lido era chiuso, come pure l’ippodromo: solo le terme erano aperte. Cercavo un’idea di solitudine che era proprio lo stato d’animo in cui mi trovavo. Anche per questo motivo il lavoro è molto più personale di altri. Però ho raccolto tante informazioni e, poi, ho fatto tante belle chiacchierate che mi hanno aiutato. Ho incontrato una storica a Bolzano, visitato il Museion, l’Archivio Storico di Merano e conosciuto degli artisti.” – continua Gbré – “Ho trovato tanto materiale interessante che ho usato per dare una direzione al lavoro, ma che andrebbe sviluppato in un progetto più ampio.” Alcune fotografie inquadrano le “pietre d’incampo” che Gunter Demnig ha collocato nei luoghi in cui i cittadini ebrei sono stati deportati dai nazisti per essere sterminati ad Auschwitz, come Lodovico Balog che è stato ucciso in quel campo nel 1944, mentre Giuseppina Freund Balog in data ignota. Tra le immagini anche quelle delle targhe dei due aviatori, Sigfredo Wakernell e Ottone Huber “eroicamente caduti”, il primo in Eritrea nel 1928 e l’altro in Cirenaica nel ’29. Quanto alla scritta “combattere”, ancora leggibile su un muro, è parte dello slogan fascista che prevedeva anche “credere” e “obbedire”. Decontestualizzandola, magari, può avere ancora senso.

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