Il bianco e il nero si rispecchiano all’ingresso negli spazi del Mattatoio, cuore vibrante da sempre di Short theatre, anche se quest’anno il festival romano di settembre si allarga a occupare altri spazi più istituzionali, dal Vascello all’Argentina e oltre. Di un diafano biancore è il volto della bambola che Gisèle Vienne ha eletto a simbolo del proprio teatro e qui vediamo moltiplicarsi nei quaranta ritratti che l’artista franco-austriaca ha allineato su due pareti che si guardano, visione inquieta di un’infanzia solo allusa eppure difficile da rimuovere quando, all’ultima stazione dell’installazione, prende fisicamente forma nel suo simulacro, la marionetta esanime. C’è un corpo disteso a terra, come senza vita, anche all’inizio dello spettacolo che va in scena lì accanto. Il corpo nero di Cherish Menzo. Materia oscura ma anche questione aperta, dice il titolo DARKMATTER, lo trascriviamo così come è scritto a programma. Cancella il lato oscuro, resta comunque la questione.
Cherish Menzo l’abbiamo incontrata un paio di anni fa a Santarcangelo, diretta dal coreografo francese Benjamin Kahn in una performance che metteva in gioco il suo sentirsi leggermente priva di identità, forse la necessità di darsi un’identità qualunque. Un’identità incerta, metamorfica, percorsa da un erotismo spasmodico quanto volutamente ironizzato, e infatti esplodeva poi in una risata.

Qui ha fatto tutta da sola, la coreografia e le parole di un rap distorto che a ondate emerge dalla danza. O meglio, in coppia con Camilo Mejía Cortés

LEI ORIGINARIA del Suriname, lontano possedimento olandese diventato il più piccolo e assai multietnico stato dell’America latina, chissà quanto integrata nel più frugale dei paesi europei, ad Amsterdam. Qui ha fatto tutta da sola, la coreografia e le parole di un rap distorto che a ondate emerge dalla danza. O meglio, in coppia con Camilo Mejía Cortés che l’accompagna in scena. In realtà, che lei sia distesa a terra e lui inginocchiato al suo fianco è solo una supposizione, o forse ancora meno: il frutto di un’attesa, una sorta di pareidolia. Vestiti di nero, il cappuccio della felpa tirato sul capo, nel buio della scena sono indistinguibili. Si stenta a percepire una differenza anche quando si sollevano e cominciano una specie di lotta, al ritmo di una musica ossessivamente ripetitiva. Poi un poco alla volta i costumi cominciano a cadere, dalle bocche sputano un liquido nero che si allarga anche a secchiate sul palco in una vera e propria action painting, rendendo instabili i loro passi.

LE PAROLE sono scandite nella lingua dell’impero, che pare ormai tutti debbano obbligatoriamente conoscere (qui comunque alla fine si può scaricare il testo da un QR code). Niente paura, non ci riservano una tirata ideologica ma i versi sognanti di un afrofuturismo che evoca mondi lontani. Che poi possano essere inquietanti anche questi, è un altro discorso.