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Chelsea XY, ritratto di signora

Chelsea XY, ritratto di signoraDa «Chelsea XY» di Tim Travers Hawkins

Intervista Il regista Tim Travers Hawkins racconta il suo documentario che segue Chelsea Manning, da Wikileaks al carcere, dagli attacchi subiti alla grazia di Obama

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 26 settembre 2020

Gli occhi velati da un’ombra nera, unghie laccate rosso scuro, una giovane donna, capelli corti, guarda in macchina con una specie di sorriso. Pensando a Joker, aleggia un retrogusto infinito di amarezza e combattività. Ossessivamente guardiamo attraverso il grigio mortifero di un mirino militare: chi sarà nel numero dei prossimi assassinii collaterali? Ponendosi questa domanda, quando era analista dell’intelligence americana nel 2010 – e per l’anagrafe ancora un uomo – questa donna ha preso decisioni che hanno mutato irreversibilmente la sua vita e quella del suo Paese.

La storia di Chelsea Manning – nata Bradley – prima soldato americano nella guerra in Iraq, poi whistleblower di 750mila documenti governativi Usa su WikiLeaks, a disvelare 15mila uccisioni di civili seppellite nel silenzio, e per questo condannata a 35 anni di reclusione e disonore, quindi incarcerata e torturata (allora i primi due tentativi di suicidio), con una pena commutata da Obama in liberazione nel 2017, mentre nel frattempo ha attraversato la transizione di sesso, e ancora, dopo la scarcerazione, la notorietà mondiale e, da stella della ribellione trans, l’amore-odio dei social … la sua storia, dunque, sembra un nucleo esplosivo di metafore della nostra contemporaneità. Manning transgender tra i generi, tra la vita e la morte, la guerra e la pace, tra l’abisso della bugia e quello della verità.

Tutto questo si irradia, prepotentemente, da Chelsea XY, documentario politico e spirituale di Tim Travers Hawkins, ospite nei giorni scorsi a Modena del Festivalfilosofia (mentre parte dell’intervista che segue è stata fatta nel 2019 con il supporto del Festival Mix Milano). Oltre i simboli, oltre la nebulosa politico-mediatica che avvolge Manning, in cerca di una più autentica, comune umanità.

Può raccontarci cosa è avvenuto in quest’ultimo anno?
Dalla nostra intervista, Chelsea ha attraversato eventi molto forti. Allora lei era in prigione perché si era rifiutata di obbedire alla convocazione del Grand Jury nel caso contro Julian Assange. É rimasta in carcere fino a marzo del 2020 quando ha di nuovo tentato il suicidio. Il giorno dopo è stata rilasciata. Il giudice ha detto che alcuni cambiamenti sopraggiunti rendevano la sua testimonianza non più necessaria. Ma le circostanze sono fortemente dubbie.

Con quale stato d’animo ha presentato il film da noi a così breve distanza dalle elezioni americane?
Sto portando in giro il film in collaborazione con DIG, l’associazione che in Italia fa un’azione fantastica nel supportare i giornalisti investigativi. In questo complesso momento pre-elezioni abbiamo chiaramente bisogno di persone come Chelsea, ma il film ci ricorda che anche gli whisleblower come lei hanno bisogno di noi. Altrimenti il potere con cui resistono inevitabilmente li travolge. Adesso che tanti dei nostri valori e diritti sono in pericolo, dobbiamo insorgere e prenderci cura di coloro che agiscono.

Riandiamo alla genesi del progetto…

Vidi Collateral Murder, il video con una parte delle scoperte fatte da Chelsea nel 2010 e – sebbene fossimo saturi di immagini relative alla guerra e al terrorismo – mi toccò in modo viscerale. Così seguii la corte marziale che vedeva gli Stati uniti vs Manning, mentre lei – a esclusione dell’ora d’aria – era praticamente invisibile per tutto il processo. Alcuni anni dopo stavo lavorando a un progetto sui prigionieri politici, persone che le circostanze rendevano letteralmente “non filmabili” e sentii che Chelsea era stata confinata in isolamento per il possesso di libri non consentiti. Mi sentii oltraggiato e le scrissi una lettera solidale. Non mi aspettavo una risposta ma alcuni mesi dopo la ricevetti. Mi resi conto che – sebbene il caso fosse stato dichiarato concluso – la sua storia stava appena cominciando.

Come il suo rilascio ha mutato il progetto del film?
Prima non ci era permesso nemmeno registrare la sua voce al telefono, così aveva cominciato a mandarmi pagine di diario via e-mail. Ho sentito che tutte queste restrizioni rappresentavano un imperativo per far sì che il film fosse realizzato, come un atto di sfida. Avevamo un meraviglioso concetto creativo che ci spingeva a portare i suoi diari alla vita, con materiali visuali e voci di attori. Ma tutto si è mutato in modo sorprendente e drammatico, e ci siamo ritrovati tra le mani un film completamente diverso.

Insostenibili i pesi che Chelsea ha accumulato sulle spalle: nell’infanzia, durante la leva, nel periodo di WikiLeaks, con il processo, in prigione, durante la transizione di genere, dopo il rilascio. Immagino fosse veramente complesso relazionarsi a lei.
Al momento della sua liberazione c’era un’atmosfera collettiva da good-news, da finale di fiaba, specie nel contesto della politica Usa di allora (l’inizio dell’amministrazione Trump). Da parte mia avevo già trascorso molto tempo cercando di conoscerla attraverso coloro che le vivono accanto e dunque mi era chiaro che aveva sofferto enormemente e che il dover spiegare se stessa a un pubblico le avrebbe comportato uno sforzo immane. Ho cercato allora di essere il più gentile possibile, in modo da mostrare che non ero interessato a interrogarla, bensì a capire chi fosse davvero.

Penso ai potenti primi piani. E alla sua intera presenza corpo e anima. Anche considerato il delicato passaggio di genere da lei affrontato.
Anche in termini di come ho girato il film – ha ragione – ho passato molto tempo a osservare, usando obiettivi con focali più lunghe e una macchina a mano, così che ci fosse una intimità e una connessione con Chelsea al di là del piano verbale. Volevo si arrivassero a contemplare le sue più impercettibili espressioni, che possono evocare così tanta empatia nel cinema.

Quali crede siano state le sue motivazioni ad accettare di partecipare al progetto?
All’inizio Chelsea era molto presa dall’idea di far sentire la sua vera voce dalla prigionia. Credo sentisse che la sua immagine sui media fosse completamente falsa e questo la feriva. Con la sua liberazione, le circostanze sono radicalmente cambiate. È passata dall’essere qualcuno con visibilità zero al rappresentare una figura iper-mediatica mondiale. Credo abbia realizzato che la persona da lei creata online fosse una maschera. Era conscia che il documentario avrebbe rivelato una verità altrimenti inenarrabile. Sono convinto che il bisogno di essere capiti sia una necessità umana profonda e universale e più qualcuno sente di essere stato frainteso dai media, più questo bisogno cresce. Essere visibili non significa essere compresi.

Il suo modo di girare con questi fuori fuoco, una sorta di veli, di videoarte soprattutto sul suo viso, era anche un desiderio di proteggerla, di ricreare il suo mistero in quanto essere umano che è stata violato così tante volte e così pesantemente?
È interessante che menzioni la dimensione spirituale. Credo che in una figura come quella di Chelsea ci sia un’aura che è difficile catturare ma la si percepisce come qualcosa non di questo mondo. La vedo realmente enigmatica, racchiude in sé aspetti incredibilmente contraddittori, è così forte e così vulnerabile. Comunque il mio principale obiettivo era di creare un’immagine che fosse fluida e poetica, senza cercare di inchiodarla in qualcosa di fisso. Per me l’approccio più autentico a questa storia, in realtà a ogni storia, è rappresentare l’apertura, il processo in divenire e non un libro concluso.

Come si è rapportato al costante stato di pericolo nella sua vita? Questo film è dentro ai segreti spaventosi della società americana, ma è un discorso universale…
Pericolo e incertezza seguivano costantemente Chelsea, anche quando è stata scarcerata. Da parte mia ho cercato di non contribuire ad accrescere i rischi. Mi sentivo supportato dal mio team, da Laura Poitras (autrice di Citizenfour, Oscar 2015 ndr), che ha così tanta esperienza nell’essere dal “lato sbagliato” della sicurezza nazionale americana e da Nancy Hollander, l’avvocata di Chelsea, Eravamo molto attenti nelle nostre comunicazioni: i telefoni erano costantemente sotto controllo….

Cosa pensa delle ragioni politiche del rilascio di C.M. e cosa ha significato per la coscienza pubblica del Paese?
Non credo sapremo mai le ragioni complete delle decisioni di Obama. Al di là di quelle rese note. La mia opinione è che stesse cercando di tramettere un lascito rispetto alla questione dei diritti LGBTQI+. Al tempo stesso si è trattato di una mossa politica audace fuori dal tracciato del personaggio.
I detrattori di Chelsea delineano una narrazione secondo cui, dal momento che lei è “confusa” rispetto al genere, deve esserlo anche riguardo alla fuga di notizie. Lei afferma che non c’è connessione tra quello che ha fatto per rivelare i documenti segreti del governo e la sua storia personale. Ovviamente è così, ma se pensiamo secondo una prospettiva simbolica, possiamo notare che Chelsea ha percepito tutti gli orrori della guerra – il principale esito del patriarcato – mentre contattava la sua parte femminile, cosa che è davvero potente, no?

Il suo tracciato ci pone anche innanzi a questioni etiche fondamentali…
Credo che la storia di Chelsea ci mostri l’enorme differenza tra etica e moralità. Qualche volta siamo forzati a prendere decisioni etiche per le quali non ci saranno mai risposte facili. Ma anche non agire è una forma di azione. D’altro canto, le regole morali sono qualcosa di fissato una volta per tutte e, se seguite ciecamente e dogmaticamente, possono portare l’umanità a orrori inenarrabili. La moralità e la legge sono spesso associate ma non dobbiamo mai dimenticare che l’Olocausto e la schiavitù erano totalmente legali.

Nel film mostra come la lotta per i diritti LGBTQI+ e una visione queer del mondo siano essenziali per l’intera umanità, dalle Tre ghinee e Orlando di Virginia Woolf in poi.
Forse c’è qualcosa di femminile nel modo intuitivo ed emozionale con cui Chelsea prese le sue decisioni, e credo questo sia anche il motivo per cui l’establishment patriarcale è stato così rapido a liberarsi di lei e a demonizzarla. Spero che le persone possano comprendere la sua lotta per essere se stessa e non scendere a compromessi sui suoi principi. Attualmente c’è chi sta volontariamente fraintendendo la battaglia per i diritti dei trans e mettendo in atto un sistematico processo di disumanizzazione nei confronti di queste persone. Generare il panico rispetto a loro – tra l’altro ci sono tanti trans nell’esercito – è l’ultima produzione della destra guerrafondaia. Questo ha enormemente distorto il discorso sull’argomento, fino a negare che queste persone esistano.

Pone l’accento sul coraggio di Manning. E sulla sua azione concreta per aiutare gli altri a entrare in contatto con la propria capacità di pensare autonomamente. Ma voleva anche mostrare come la sovraesposizione pubblica che lei vive sia una prigione mediatica. Penso all’intervista di Chelsea alla radio e alle splendide cose che dice sull’argomento, al rispetto che si deve alla sofferenza psichica… Voleva sottolineare che è essenziale per lei cercare fortemente spiragli di normalità?
Questa è la chiave per me. Se è vero che in tempi come questi, per agire collettivamente, abbiamo bisogno di persone coraggiose come Chelsea, persone in grado di sputare il rospo e rivelare la verità anche ad alti costi personali, troppo spesso martirizziamo i trafugatori di notizie. C’è quasi un senso cristiano che ci spinge a credere che debbano soffrire. Io volevo sradicare l’idea romantica di questa sofferenza e mostrarla invece in modo scomodo nella sua realtà. Alla fine del film, poco prima di essere nuovamente incarcerata, Chelsea si stava giusto prendendo tempo per lavorare sulla normalità della sua vita. Mi auguro questo più di ogni altra cosa per lei, anche se sembra molto difficile da raggiungere.

Parlando di questi spiragli, un profondo respiro per lei nel film è rappresentato dalla natura: torrenti, foglie, cieli, uccelli in volo (penso a Il sussurro del mondo di Richard Powers, in cui gli alberi sono personaggi)..
Sì, volevo che questo film parlasse un linguaggio più sottile di esistenza, di libertà e di incontro col mondo. Ho visto in Chelsea un desiderio di connettersi con le cose, con le persone e con la natura, di sentirsi parte di qualcosa più grande di lei. Credo che uno degli aspetti più tragici rispetto alla sua storia sia che in molti modi lei sta ancora cercando un posto a cui appartenere completamente, e così questi momenti sono circoscritti a meri spiragli, piuttosto che a una pace duratura. L’attenzione alla natura, che lei ha notato, ha poi a che fare col voler rendere il film un’esperienza sensoriale che parli ai nostri corpi come alle nostre menti. In questi momenti ci rammentiamo anche della fragilità della vita e di quanto Chelsea abbia rischiato e sacrificato.

Una delle chiavi per accostarsi alla storia di Chelsea, come sempre accade, è la sua relazione con la famiglia, relazione nel suo caso più che travagliata, i suoi erano entrambi alcolisti. Pone l’accento sul rapporto con sua madre. L’incontro che lei da regista ha con questa donna è toccante. Può parlarne? Sono stata colpita dal suo lavorare a maglia e dai grandi gomitoli.
Ho trascorso due giorni con la madre di Chelsea. L’intervista è stata breve ma a me ha rivelato tanto. Credo che parli al tempo stesso di amore e estraneità. Da un lato puoi vedere quanto sua madre la abbia ancora a cuore, quanto desideri la sua vicinanza, dall’altro avverti la profonda e insormontabile separazione che si è formata tra loro. Quando abbiamo finito l’intervista, Susan ha cominciato a sferruzzare e io l’ho ripresa. C’era qualcosa rispetto a questi grandi viluppi di fili che lei continuava a maneggiare, qualcosa che parlava alla sua memoria aggrovigliata. E che, dopo l’ictus che aveva subito, lei tentava di districare.
Alla fine del film chiedo a Chelsea di sua madre e lei allora risponde che non si sono più sentite. Credo che per molte persone una cosa come questa sia difficile da capire. Eppure essere queer spesso significa che i tuoi amici diventano la tua famiglia. Perché i tuoi genitori – come buona parte della società – letteralmente non ti vedono per quello che sei.

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